Le rivolte “del pane”? Per AsiaNews è colpa della Fed

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Le rivolte “del pane”? Per AsiaNews è colpa della Fed

29 Gennaio 2011

Le rivolte in Algeria e Tunisia e poi in Egitto e Yemen vengono chiamate “del pane” perché a scatenarle è stato l’aumento dei prezzi di generi di prima necessità quali farina, olio e zucchero. Altre manifestazioni di protesta, per la stessa ragione, si erano già verificate nel 2010: in Mozambico, ad esempio, l’estate scorsa, dove però la collera popolare è stata contenuta dalle forze dell’ordine e dai provvedimenti con cui il governo di Maputo ha riportato a valori sostenibili il costo dei prodotti alimentari di largo consumo. In Tunisia questo non è bastato e il presidente Ben Ali, malgrado disponesse di un apparato repressivo molto ben addestrato, è stato costretto all’esilio. Magari si sarebbe salvato se qualcuno avesse informato per tempo le folle tunisine in rivolta che in realtà il loro governo non è responsabile del rincaro dei prezzi. A dirlo è Maurizio d’Orlando, noto commentatore di notizie economiche e finanziarie.

“Tutto dipende dall’inflazione provocata dalla Fed”, la banca centrale USA, spiega in un articolo pubblicato il 26 gennaio dall’agenzia di stampa AsiaNews. Lo scorso anno il prezzo delle derrate agricole è aumentato del 40-60% e a ciò si deve aggiungere il rincaro dei carburanti. Ma, secondo d’Orlando, sbaglia chi attribuisce i rincari a fattori climatici o tecnici. È vero che ci sono state le gelate in Argentina, la siccità in Russia, le inondazioni in Canada e in Australia, ma il loro effetto sui mercati internazionali è stato irrilevante perché ha determinato una riduzione minima della produzione agricola a cui si è potuto rimediare ricorrendo alle scorte. La colpa invece è della Federal Reserve che “quatta quatta, senza avvertire nessuno” – scrive d’Orlando – ha autonomamente cambiato le proprie regole contabili” per non correre più il rischio, anche solo teorico, di fare fallimento.

Si rimanda all’articolo per i dettagli. Quel che preme evidenziare è l’incapacità di questo come di altri osservatori di analizzare quel che avviene in Africa e in altre parti del mondo focalizzando innanzi tutto l’attenzione sulle cause interne dei fenomeni, come sarebbe logico e metodologicamente corretto. Si rivoltano contro i loro governi popolazioni che vivono con pochi dollari al giorno, anche con meno di uno, e per le quali l’aumento del prezzo della farina e dell’olio è una catastrofe: ed è questo loro stato di perenne indigenza il problema fondamentale. Per fortuna altri esperti, più informati di d’Orlando, si rendono conto delle cause profonde e dalle origini remote delle crisi insorte: decenni di povertà, disoccupazione, disperazione per un futuro senza prospettive, esasperazione per differenze sociali abissali vistosamente ostentate. Sanno anche che, nei paesi dove le masse urbane insorgono, queste condizioni di vita insopportabili sono conseguenza di regimi repressivi e corrotti che dilapidano immense ricchezze impedendo sviluppo economico e progressi sociali. Ma molti trovano il modo di puntare comunque l’indice accusatore contro l’Occidente.

Il 16 gennaio, in un commento, Marwan Bishara, analista politico della rete televisiva al-Jazeera, ha incolpato la comunità internazionale “tradizionalmente silenziosa sulle pratiche totalitarie e sugli abusi commessi in alcuni paesi”. Per comunità internazionale in effetti intendeva l’Occidente: “quando alcuni regimi, come quello tunisino, cooperano con le controparti occidentali i loro abusi sono generalmente ignorati. Questo spiega il silenzio dei leader occidentali e la confusione sulla rivolta tunisina, ma anche la loro corsa a sostenere la rivolta dell’opposizione iraniana. Chiamatela ipocrisia”. Il quotidiano algerino “El Watan”, sempre il 16 gennaio, se l’è presa con la Francia “sorda e cieca alla rivolta popolare”: i suoi leader, “rifiutando di condannare la corruzione e la repressione di ogni espressione democratica, si sono fatti protettori di un regime poliziesco”. Un editoriale del quotidiano saudita “Asharq al Awsat” il 10 gennaio spiegava così la situazione in Algeria e Tunisia: “l’errore fondamentale commesso dall’Occidente è stato di non esercitare alcuna pressione morale su questi paesi perché migliorassero le relazioni con la popolazione avviando genuine riforme economiche, politiche e di sviluppo, combattendo la corruzione, smantellando lo stato poliziesco. In assenza di queste pressioni, è sorto e cresciuto un senso di oppressione e ingiustizia confluito in rivolte e proteste violente”.

In sostanza, dunque, l’idea è che chi fa affari con i dittatori e ne tollera l’esistenza è responsabile del loro comportamento. Si potrebbe convenirne, allora però il dito andrebbe puntato prima di tutto su Nazioni Unite, Unione Africana, Lega Araba e Conferenza islamica: organismi tutti gremiti di leader a capo di regimi autoritari, modelli di malgoverno e corruzione, ai quali conferiscono legittimazione e valore difendendone quasi sempre l’operato e anzi affidando loro cariche di responsabilità. Va da sé che quando l’Occidente prova ad esercitare pressioni per migliorare la situazione di un paese – Sudan, Zimbabwe, Afghanistan… – viene sommerso da accuse di indebita ingerenza negli affari interni di stati sovrani, imperialismo, subdole manovre economiche, arrogante pretesa di imporre a tutto il mondo il proprio modello economico e politico.