Le sanzioni all’Iran volute da Obama rischiano di costare care all’Europa
01 Febbraio 2012
L’adesione ufficiale – il 23 gennaio – dell’Unione Europea all’embargo sul greggio iraniano deciso da Barack Obama il 31 dicembre dello scorso anno getta luci sinistre sui reali benefici per l’Europa di una politica che più che severa potrebbe rivelarsi miope, se non addirittura controproducente. Come prevedibile, la risposta di Teheran non si è fatta attendere a lungo. Il Parlamento della Repubblica islamica sta discutendo un provvedimento che possa prevenire gli effetti del blocco. In altre parole, minaccia di interrompere, da subito, le forniture verso quei paesi che hanno votato a favore delle sanzioni. Con conseguenze immediate e ben più gravi di quelle che inevitabilmente colpiranno i principali importatori europei di petrolio persiano, Italia compresa.
Sulla scia della linea dura dettata da Washington, il pacchetto di misure varato dall’UE intende compromettere l’avanzamento del programma di armamento nucleare diretto da Teheran annullandone, alla base, le capacità di finanziamento interno. Nel mirino della manovra, la principale risorsa economica del paese. Saranno, pertanto, impedite le importazioni di greggio dall’Iran e, viceversa, le esportazioni di tecnologie essenziali allo sviluppo del suo settore petrolchimico dall’Europa. Il patrimonio della Banca Centrale iraniana su territorio europeo sarà congelato. A presidio degli interessi dell’Unione, una blanda clausola di salvaguardia dei contratti in corso, che dovrebbe rinviare gli effetti dell’embargo al primo luglio. Salvo il riesame – entro fine aprile – dell’impatto economico delle restrizioni su quelle nazioni, quali Grecia, Spagna e Italia, energeticamente dipendenti dall’Iran, oltreché già fortemente esposte alla crisi del debito pubblico.
Il greggio rappresenta il 90% delle esportazioni iraniane. L’Iran, terzo produttore mondiale, quotidianamente ne immette sul mercato internazionale circa 2,6 milioni di barili. Mentre pressoché nulla è esportato in America, quasi l’80% è destinato all’Asia e solo il 20% all’Europa che – con un consumo di 600 mila barili al giorno – si attesta come secondo sbocco commerciale del regime, subito dopo la Cina. L’oro nero di Teheran soddisfa il 34,2% del totale della domanda petrolifera greca, il 14,9% di quella spagnola e il 13,2% di quella italiana. Ed è proprio con riguardo a questi paesi che la strategia messa a punto per piegare la corsa persiana al nucleare rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang.
Se per Grecia, Spagna e Italia l’Iran si dimostra, specialmente nel breve periodo, un partner insostituibile, Teheran può invece facilmente, e a costo zero, ripiegare sull’export in continua espansione di acquirenti sicuri (e solventi), quali Cina e India. Con il risultato che i tagli all’import dalla Repubblica islamica pongono solo in capo all’Europa l’onere di reperire in tempi brevi un contraente alternativo. E non uno qualsiasi, bensì un produttore capace di offrire una fornitura energetica quantitativamente e qualitativamente equivalente a quella iraniana. Come se non bastasse, l’OPEC preannuncia un aumento della domanda globale di petrolio entro il 2012 pari ad almeno 1 milione di barili, facendo così innalzare il valore del deficit potenziale a 3,6 milioni di barili. Né sarà sufficiente a surrogare la produzione venuta meno l’impegno dichiarato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, considerato che l’attività estrattiva nel Golfo persico è già a massimo regime.
Delicata la situazione petrolifera italiana. Per l’Italia, l’Iran è soprattutto il produttore esclusivo di una qualità particolarmente pregiata di greggio impiegata nelle raffinerie nostrane. L’accaparramento degli approvvigionamenti si tradurrà, per la FederPetroli, in un calo dei margini sull’industria petrolifera, a favore di mercati spot di prodotto. Graveranno insomma sulle nostre aziende i costi legati all’adeguamento degli impianti, nonché al reperimento di nuovi fornitori, e alla relativa contrattazione degli accordi. E con la Libia fuori gioco, è probabile che la scelta ricadrà sull’Azerbaigian, già nostro principale fornitore di petrolio (del resto, lo scorso anno la SOCAR, State Oil Company of Azerbaijan Republic, si era dimostrata interessata a possibili partnership con la SARAS, raffineria da 15 milioni di tonnellate di produzione annuale).
Ad aggravare il quadro, l’inevitabile aumento dei costi petroliferi. Finora Teheran ha solo minacciato di chiudere lo stretto di Hormuz. Se alle parole dovessero seguire i fatti, il prezzo del petrolio salirebbe alle stelle. E a rimetterci sarebbero proprio i singoli paesi europei più a rischio. Non a caso, il premier Monti ha sollevato la questione del rimborso di circa due miliardi di dollari vantato dall’ENI nei confronti della National Iranian Oil Company (NIOC) a titolo di compenso per vecchi investimenti italiani in Iran. L’Italia si è persino detta favorevole al recupero del debito, anziché con denaro liquido, con greggio. Il che, sommato alle altre richieste avanzate dall’UE, lascia presagire che gli accordi petroliferi iraniani resteranno esenti da sanzioni per l’intero 2012.
L’embargo petrolifero totale, ma non generalizzato, si rivela in conclusione una decisione sbilanciata e potenzialmente inefficace. Mentre comporta per gli USA costi limitati, richiede all’Europa un sacrificio economico persino maggiore di quello – tutto sommato relativo – imposto a Teheran. D’altronde, l’eventuale peggioramento delle condizioni economiche iraniane non avrà di certo l’effetto di destabilizzare un regime abituato a subire sanzioni fin dalla rivoluzione del 1979, ma solo quello di inasprire le condizioni cui questo porterà avanti, ad ogni costo, la bomba atomica. Sullo sfondo, il vincitore morale della partita USA-Iran, la Cina, che pur ufficialmente schierata contro il programma nucleare del regime degli Ayatollah, stringe economicamente con il paese iraniano, a danno soprattutto dell’Europa.