Le sfide del nuovo Presidente: l’Iraq, l’Afghanistan e soprattutto l’Iran
05 Novembre 2008
Chissà adesso che fine farà l’imprendibile sorriso. Se ne è avuto già un antipasto nella notte del trionfo al Grant Park, quando sul volto di Barack Obama, il nuovo presidente americano, sono apparse espressioni più tirate. Forse la stanchezza. O forse il piacionismo della campagna elettorale si è semplicemente stemperato con il manifestarsi, dietro il giubilo e la folla festante, delle prime sensazioni sul compito gravoso che incombe. Adesso c’è una realtà da affrontare: decisioni sofferte, stress e la percezione di non aver mai tempo a sufficienza. Per riflettere ancora. Può capitare, all’uomo più potente del mondo. Tanto più oggi, nel settimo anno dell’era post “nine eleven”. Brutte gatte da pelare attendono Obama. Ci sono guerre da vincere in Afghanistan ed Iraq, e c’è l’Iran che presto potrebbe trasformarsi in un altro campo di battaglia.
Iraq ed Afghanistan. Le due guerre di Bush. Adesso la loro gestione passa a Obama. Con delle differenze, però. Se, infatti, per l’Iraq il barometro inizia a segnare sereno, per l’Afghanistan marca decisamente tempesta. In Iraq la partita, dopo anni tremendi, condizionati dai grossolani errori del duo Rumsfeld/Bremer, sembra volgere a favore dell’America. La situazione sul campo è migliorata nettamente. Il mese di ottobre ha fatto registrare il numero più basso di morti – sia civili sia militari – dall’inizio delle ostilità nel 2003. Al Qaeda è in rotta, cacciata dalle sue roccaforti dai Marines e dai “Figli dell’Iraq”. Ma il problema, adesso, sono paradossalmente proprio questi ultimi, i sahwas. Come si può leggere nell’anticipazione dell’annuale National Intelligence Estimate resa dal New York Times, la nuova sfida è integrarli nelle forze di sicurezza e negli apparati dello Stato. Se questo processo avrà successo – ed il Governo sciita accetterà senza furbesche resistenze di rendere questi miliziani sunniti un braccio legittimo dello Stato – in Iraq potrà davvero essere ottenuto un risultato insperabile fino a due anni fa. Se Maliki, invece, tirerà troppo la corda, facendo finta che non siano stati proprio i sahwas a contribuire in modo determinante a risolvere il problema Al Qaeda, questi potrebbero tornare ad ingrossare le fila della guerriglia e la violenza potrebbe riaffacciarsi a Baghdad e Ramadi. A quel punto anche la strategia obamiama di “ritiro responsabile” dall’Iraq potrebbe subire contraccolpi.
Dove invece la situazione è molto peggiore è in Afghanistan. Lo stesso NIE lo sottolinea avvertendo Casa Bianca ed Occidente tutto: stiamo perdendo. Più che una valutazione o una semplice raccomandazione, un avvertimento per Obama. Che si troverà di fronte, soprattutto, due nodi: l’atteggiamento del Pakistan verso i talebani e le ambiguità della NATO. Come più volte è stato ripetuto in questi anni, la chiave della soluzione del problema afgano sta in Pakistan. Se non si rescinde il cordone che lega l’ISI ai talebani, la guerra in Afghanistan non si vince. Obama ha già detto di voler usare con il Pakistan la carota diplomatica ma anche il bastone militare. Dialogo e raid di UAV o forze speciali in Waziristan per convincere Islamabad che i suoi interessi strategici sarebbero meglio serviti posando lo strumento talebano e richiamandone gli adepti alla loro originaria occupazione: la lettura dei testi coranici. Naturalmente nelle madrasse di Qetta e lontano dalle valli afgane. Non basterà, almeno che la strategia non si allarghi anche all’India. Nuova Delhi è parte in causa: il vero convitato. Solo coinvolgendola, ed aiutandone una ristrutturazione e, possibilmente, un rasserenamento delle relazioni con il Pakistan, si potrà ottenere il risultato di rassicurare Islamabad e convincerlo che la profondità strategica a nord, assicurata dai talebani, o chi per loro, non sarà più necessaria per la sua sicurezza. E poi c’è la NATO. Non si vince una guerra se chi la combatte, la NATO appunto, lo fa e non lo fa. Spara e non spara. Caveat diversi, regole e procedure diverse: tutta acqua portata al mulino talebano. Ma non è solo questione di regole di ingaggio, ovvero di chi spara e chi no o di chi sta nei carnai talebani del sud, e dell’est, e chi no. C’è di più, di peggio. Ci sono alcuni contingenti che, non solo non combattono, ma non condividono nemmeno l’intelligence e persino alcuni assetti operativi. In modo sciagurato li considerano risorse “nazionali”. E così accade in diverse circostanze che informazioni, elicotteri, aerei da trasporto ecc… siano usati solo per le specifiche esigenze del contingente che li schiera. Alla faccia del burden sharing e della difesa collettiva. Esigenze nazionali, appunto, ovvero l’anticamera della sconfitta visto che i contingenti sono tanti ma la coalizione è una, così come il nemico. Per non parlare delle procedure e degli standard operativi che dovrebbero essere omogenei ma che nella realtà a volte non lo sono. Un disastro, come quello capitato lo scorso agosto ai parà francesi, rimasti per quattro ore da soli a fronteggiare centinaia di talebani senza munizioni perché incapaci di chiamare in tempo il supporto aereo americano. Con i talebani che non potevano credere ai loro occhi ed a cotanto sgangherato coordinamento. La politica del “dentro/fuori”, la NATO, la si paga anche così.
Ma il problema vero, la grande questione su cui si commisurerà la reale statura di Barack sarà il nucleare iraniano. La madre di tutte le questioni. Anche perché mentre in campagna elettorale impazzava il “yes we can”, a Natanz si continuava a installare centrifughe e ad arricchire uranio. Già nella primavera scorsa l’AIEA era stata insolitamente dura con Teheran nel suo rapporto chiedendo risposta a una serie di interrogativi, relativi ai reali obiettivi del programma nucleare, su cui l’Iran pare invece aver agilmente glissato. Le sanzioni, o almeno, quel brandello di sanzioni adottate finora dal Consiglio di Sicurezza, non hanno dato i risultati sperati. E’ sempre, o quasi, così: le sanzioni finiscono con il rafforzare le intenzioni di colui che le subisce. A maggior ragione adesso che a Tel Aviv e Washington governa l’incertezza dell’interregno. E nell’incertezza qualcuno potrebbe essere anche imprudente e farsi prendere dagli eventi. E la situazione precipitare.
Se, allora, diplomazia deve essere che sia seria almeno. L’Iran si sente accerchiato. Ha gli americani sui suoi confini, in Iraq ed Afghanistan, e per questo agita lo spettro nucleare. Non c’è niente di ideologicamente motivato. Se Obama vuol trattare sul nucleare iraniano dovrà farlo a tutto campo mettendo da parte la “diplomazia presidenziale” e la strategia degli incentivi economici ed accettando invece che certi interessi di sicurezza di Teheran, sull’Iraq e su una parte dell’Afghanistan, vengano garantiti. Poco idealismo e molto realismo, e la classica ricerca del compromesso. Come quello che, almeno per ora, ha riportato nei ranghi Sadr in Iraq. Un risultato raggiunto grazie alla mediazione dei Pasdaran. Un messaggio chiaro di Teheran: Iraq e nucleare sono legati. Non vi può essere “stralcio”. Il tavolo è unico.
Il punto è capire se Obama avrà i tempi, e la volontà, per avviare questo discorso. Le stime più pessimistiche ritengono l’Iran capace di produrre un ordigno nucleare rudimentale, con poco più di 20 kg di U235 al 90%, già entro la fine dell’anno. Quelle più ottimiste pensano al 2010. L’ottimismo non ha mai fatto difetto al popolo americano. Speriamo che questa volta sia ben riposto e che sia accompagnato nel nuovo presidente anche da forza e determinazione. Ma anche da fantasia.