Le toghe in rivolta dimostrano di essere di parte
01 Febbraio 2010
Questa volta non è riuscita. La protesta contro il governo decisa dal vertice dell’Anm è stata infelice nella scelta del modo, non ha incontrato l’unanimità dei giudici, è stata contraddetta dai discorsi con i quali più d’uno dei presidenti delle Corti ha inaugurato l’anno giudiziario. Comincio dal "modo": la decisione di abbandonare l’aula nel momento in cui interveniva il rappresentante del ministro della Giustizia ha segnato qualcosa di più della manifestazione di un dissenso – come è accaduto in passato con l’esibizione della Costituzione -, e si è trasformata in un vero e proprio strappo istituzionale.
La cerimonia di inaugurazione non è una partita di calcio o una festa di compleanno: costituisce un evento ufficiale dello Stato, previsto dalla legge sull’ordinamento giudiziario; un evento in cui la magistratura si pone come soggetto istituzionale "terzo", che pratica il principio "audiatur et altera pars". I magistrati che sono usciti dall’aula hanno riconosciuto di non porsi come "terzi" non verso l’on. Alfano, ma verso quella fascia di italiani che col loro voto hanno portato l’on. Alfano a essere il ministro della Giustizia. Se quando parla un deputato i suoi avversari escono dall’aula è una polemica pesante, ma non così forte sul piano istituzionale: i deputati di un partito non hanno l’obbligo di essere "terzi" rispetto a quelli del partito avversario. Il magistrato, proprio perché autonomo, indipendente, e quindi "terzo", ha invece un dovere di ascoltare superiore a quello di un deputato; il rifiuto di ascoltare scelto come manifestazione di dissenso è invece il simbolo preoccupante di una terzietà rifiutata.
La gravità del "modo" ha provocato la dissociazione. Una componente dell’Anm, il gruppo di Magistratura indipendente, con una propria nota, ha motivato il dissenso dall’iniziativa. Questo è avvenuto nonostante l’imminenza delle elezioni per il rinnovo del Csm: il che rende merito alla "corrente" moderata della magistratura associata, ma segnala pure che essa non teme di perdere voti in virtù di questa scelta, e anzi la dissociazione può incontrare apprezzamento diffuso, soprattutto fra i giudici più giovani e fra i meno ideologizzati. La protesta non ha avuto luogo né in Cassazione, per rispetto – questa è stata la ragione dichiarata – verso il capo dello Stato, né a L’Aquila, in segno di lutto per il terremoto. E fin qui le deroghe appaiono scontate. La protesta è però mancata pure a Messina e a Reggio Calabria, mentre in altri distretti – per esempio a Bari – è andata in scena in modo soft, evitando uscite plateali. Non solo. Nel Palazzaccio e in più di una Corte d’appello i capi degli uffici non hanno demonizzato le riforme in discussione. Hanno espresso i loro convincimenti, hanno formulato rilievi di dettaglio, hanno avanzato delle proposte, come è ovvio attendersi da addetti ai lavori che saranno chiamati ad applicare le norme oggi all’esame del Parlamento: non hanno adoperato toni da Valle di Giosafat, e si sono mossi – certo, fra tante eccezioni – sulla scia di quella leale collaborazione fra poteri dello Stato che è essenziale per la funzionalità delle istituzioni.
Ciò rivela la consapevolezza di molti magistrati che le scelte operate negli ultimi anni dell’Anm li hanno cacciati nel vicolo cieco di una sostanziale marginalità, e che la radicalizzazione provoca la difesa a oltranza delle posizioni di partenza, sì che alla fine vincono gli estremismi e perde la ragionevolezza. Il peso politico dell’associazione è ridottissimo, l’interesse dei media può essere sollecitato solo dal livello di provocatorietà delle manifestazioni pubbliche, ma quanto più quest’ultimo è elevato, tanto più forte, come si è visto, è la probabilità della dissociazione.
Ma tutto questo non può lasciare indifferente la politica, e in particolare la maggioranza di centrodestra. Una parte della magistratura avverte la necessità di correggere la rotta, manifesta un disagio evidente e lo dichiara con coraggio: non si trascuri che il corpo giudiziario continua a essere una realtà chiusa, nella quale carriere, trasferimenti e sanzioni disciplinari sono decise in esclusiva da un Csm la cui parte togata ha il medesimo tratto ideologico dell’Anm; dunque, la presa di distanza non è indolore. Il centrodestra non può e non deve disinteressarsene: con realismo, senza illusioni, continuando a perseguire gli obiettivi di riforma della giustizia per i quali ha avuto il consenso degli elettori, esso può e deve intensificare un confronto diretto e leale con quei settori della magistratura, siano o non siano associati, che permetta di uscire dalla dimensione di lotta frontale. Anche per confermare con i fatti quanto controproducente sia stata la protesta scelta dall’Anm. Tratto da Il Giornale