Le vere ragioni del No: una risposta a Luciano Violante

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Le vere ragioni del No: una risposta a Luciano Violante

30 Agosto 2016

Ho letto le riflessioni di Violante sull’Huffington Post. Sulle premesse sono d’accordo con lui ed è anche per questo che trovo utile e proficuo discutere con Luciano: il referendum, per sua natura, non può essere un giudizio di Dio. Impone una scelta empirica e approssimativa. Impone cioè di condensare in un Sì o in un No ragionamenti complessi; di mettere su un piatto della bilancia ciò che ti convince e sull’altro ciò che ritieni non vada e decidere quale dei due piatti sia più pesante.

Un referendum che riguardi la riforma della Costituzione, tuttavia, presenta un aspetto particolare. La riforma costituzionale non è infatti una riforma come le altre. Non a caso, la Costituzione viene definita “legge fondamentale“: è quella che stabilisce la legittimità di un sistema politico, che fissa le regole della convivenza civile all’interno di una nazione, che determina l’efficienza del funzionamento di uno Stato. Per queste ragioni, in una riforma costituzionale vanno considerati gli aspetti di merito ma anche quelli di metodo. Per queste stesse ragioni, quando si modifica in modo radicale la legge fondamentale bisogna cercare di non sbagliare.

Non è vero, come del resto Luciano Violante riconosce, che qualsiasi riforma, una riforma purchessia, sia migliore di nessuna riforma. Non è vero che una riforma sbagliata possa facilmente essere corretta. La riforma del Titolo V del 2001 è lì ad ammonirci. Passò perché ritenuta meglio di niente. Oggi tutti riconoscono che è stata un disastro. Il contenzioso tra Stato e Regioni che la Corte Costituzionale è stata obbligata a dirimere ha fatto venir meno la certezza del diritto e senza certezza del diritto non c’è crescita economica. Tanti operatori economici, non sapendo a quale legge votarsi (quella dello Stato o quella della Regione?), nel dubbio hanno preferito investire altrove.

Non sono invece d’accordo con Luciano quando sostiene che la riforma del centrodestra, respinta dal referendum nel 2006, fosse una riforma intrinsecamente autoritaria (perché attribuiva al Presidente del Consiglio la possibilità di richiedere lo scioglimento della Camera). Se devo dirla tutta, l’affermazione ha il sapore di una propaganda retrospettiva che stona nel contesto di un ragionamento coerente e rigoroso. Per essere rigorosi bisogna ammettere che quella riforma presentava uno degli inconvenienti che ritroviamo nel testo Renzi-Boschi: un procedimento legislativo involuto e farraginoso. Rispetto a quella sulla quale ci accingiamo a esprimerci nel prossimo autunno, la riforma del centrodestra era però più onesta. Si avvicinava maggiormente alla proposta di un governo di gabinetto (detto anche governo del primo ministro) sul modello anglosassone, proprio perché interveniva in maniera trasparente sulla forma di governo. La riforma Renzi-Boschi si prefigge lo stesso scopo ma lo persegue con mezzi impropri, surrettizi, attraverso una legge elettorale che dovrebbe assicurare al premier una maggioranza certa. Quale sia il suo reale intento – cambiare di fatto la forma di governo senza dirlo, provocando con ciò inevitabili squilibri costituzionali – Renzi lo ha confessato candidamente nel corso di un dialogo con Eugenio Scalfari, dicendo che il prossimo passo potrebbe essere quello di limitare a due i mandati del primo ministro. Probabilmente il premier ignora che in un sistema parlamentare – quale il nostro rimarrebbe anche se il referendum passasse – i mandati non sono proprio contemplati: un primo ministro rimane tale fino a quando ha la fiducia del parlamento.

La riforma: come avrebbe dovuto essere

Il risultato elettorale che ha inaugurato questa legislatura ha segnalato con ancor più evidenza – qualora ce ne fosse bisogno – la necessità di una profonda riforma delle nostre istituzioni. Il voto del 2013 ha infatti sancito la fine del bipolarismo che avevamo conosciuto nell’ultimo ventennio e certificato la disaffezione crescente dei cittadini per la politica. Il paese inoltre, assediato dalla crisi economica, ha rischiato di impantanarsi al momento dell’elezione del nuovo Capo dello Stato.

Da qui l’impegno per una riforma che fosse frutto di un’assunzione di responsabilità condivisa e di un nobile compromesso tra due schieramenti contrapposti, centrosinistra e centrodestra, chiamati nel frattempo a rinnovare uomini, programmi e proposta politica. Da qui anche l’impegno a disegnare un sistema elettorale compatibile col nuovo equilibrio costituzionale e immune dal rischio di eccessive sperequazioni come quelle determinate nell’ultimo periodo dal porcellum. Di questo programma e delle sue finalità si trova traccia indelebile nel discorso alle Camere con il quale il Presidente Napolitano ha inaugurato il suo secondo mandato.

La riforma avrebbe dovuto modificare il sistema bicamerale, attribuendo alla sola Camera dei deputati la prerogativa di concedere la fiducia al governo consentendo così una semplificazione del procedimento legislativo in grado di evitare lungaggini e conflitti infiniti.

Il nuovo Senato avrebbe dovuto essere delineato come una camera di compensazione tra legislatori, nella quale i rappresentanti dello Stato e delle Regioni potessero fissare le rispettive competenze (soprattutto nella materia concorrente) in modo da evitare il pesantissimo contenzioso di fronte alla Corte costituzionale. Si sarebbe dovuto rivedere con razionalità il Titolo V, riconducendo alla competenza statale alcune materie impropriamente attribuite alle Regioni (come energia e grandi reti), diminuendo lo iato tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale, mettendo ordine nel sistema delle autonomie dopo l’abolizione delle Province: quale migliore occasione per chiarire le competenze amministrative dei Comuni, la consistenza delle Città metropolitane, il ruolo delle Regioni dopo la fine della stagione dell’irresponsabilità?

E ancora. Si sarebbe dovuto disegnare un nuovo equilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo, rafforzando il ruolo e le prerogative del capo del governo e nel contempo attribuendo al parlamento (e in particolare alle opposizioni) più incisivi strumenti di controllo, ad esempio sulla spesa pubblica, e su quella vasta area di irresponsabilità alimentata soprattutto dal proliferare di autorità indipendenti.

Si sarebbero dovuti ampliare gli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini nella vita delle istituzioni. Si sarebbe dovuto elaborare una legge elettorale che fosse coerente e organica e non una specie di corpo estraneo rispetto al nuovo equilibrio costituzionale; una legge che agevolasse dunque per il possibile la governabilità e accrescesse la possibilità dei cittadini d’incidere sulla scelta dei propri rappresentanti.

Cosa resta tre anni dopo: perché No

A distanza di tre anni, è il momento di chiedersi cosa sia rimasto del programma originario. Ed è dalla risposta a questo interrogativo che emergono le vere obiezioni di fondo, di merito e di metodo, che dal fronte del No vengono avanzate nei confronti della riforma. È legittimo che i sostenitori del , fra i quali meglio di altri Luciano Violante, cerchino di evidenziare le proprie ragioni. E, d’altra parte, non tutto ciò che è contenuto in questa riforma è da respingere. Alla fine, però, tra il Sì e il No una scelta si impone e questa scelta può derivare solo da una valutazione dei meriti e dei limiti che la riforma stessa porta con sé. Chi come me è convinto sostenitore del No, ritiene che il coronamento referendario della riforma e del disegno a essa sotteso creerebbe molti più problemi di quelli che (forse) risolverebbe. E le ragioni alla base di tale convincimento sono diverse e ben più strutturali di quelle che i fautori del Sì si premurano di confutare.

La riforma limita alla sola Camera il rapporto di fiducia col governo, ma il sistema bicamerale non viene affatto superato. Il Senato “riformato” non è una camera di compensazione tra legislatori regionali e legislatori nazionali: non ha competenza sulla materia regionale e, inoltre, sarà composto di consiglieri regionali che una volta eletti senatori non rappresenteranno le rispettive Regioni bensì i partiti che li hanno eletti. Non vi sarà ad esempio in Senato la rappresentanza della Lombardia ma, all’interno della compagine lombarda, ci saranno il senatore del Pd, quello di Forza Italia, il grillino eccetera, che tenderanno a fare gruppo con i colleghi dello stesso partito piuttosto che a garantire una effettiva rappresentanza alla istituzione regionale di cui sono espressione. Inoltre, è vistosa l’assenza dei presidenti delle Regioni che, invece, continueranno a sedere nella Conferenza Stato-Regioni. L’esistenza di due tavoli – il Senato e la Conferenza Stato-Regioni – è inevitabilmente foriera di complicazioni e conflitti.

Il procedimento legislativo non viene semplificato. Tutt’altro! Con la riforma il sistema della “navetta” – ovvero il passaggio di una legge dalle due Camere – non sarà più obbligatorio, ma in compenso le diverse procedure di approvazione di un testo normativo si moltiplicano. Il professor Emanuele Rossi – che certamente non è un sostenitore del No – ne ha individuati un numero che rasenta la decina. Né è sempre chiaro quale procedimento debba seguire una determinata legge per essere approvata: in alcuni casi la decisione viene rimessa ai presidenti delle Camere, che restano due, e nulla viene detto su come si debba procedere se i due sono in disaccordo.

Per quanto riguarda il rapporto tra Stato centrale ed enti legislativi territoriali, la riforma centralizza molte materie che il vigente Titolo V aveva devoluto alle Regioni. Il divario tra Regioni a statuto ordinario e Regioni a statuto speciale aumenta: alle prime potrebbe di fatto anche essere revocata la potestà legislativa, le seconde non vengono toccate. La materia concorrente resta foriera di conflitti. Il sistema delle autonomie non viene riordinato. Le competenze che erano delle Provincie non sono assegnate con chiarezza, le Città metropolitane restano un mistero glorioso, le Regioni sono ancor più sospinte nel limbo: non più istituzioni “irresponsabili”, ma non certo dotate di una loro autonoma responsabilità come si sarebbe voluto fare attraverso il federalismo fiscale.

La forma di governo a livello costituzionale non viene modificata. In compenso è prevista una legge elettorale – non estranea al tema sostanziale del referendum – che concede un premio di maggioranza al partito del premier tale da renderlo autosufficiente nell’esprimere un governo, eleggere i membri del Csm e della Corte Costituzionale e, nel caso di un Senato egemonizzato dal partito del premier (come sarebbe oggi, stanti le attuali maggioranze), avvicinarlo all’autosufficienza per eleggere il Capo di Stato. Questa legge elettorale, al di là di ogni considerazione d’ordine costituzionale, crea un sicuro conflitto tra legittimità ed esercizio del potere. Nel senso che può concedere molti seggi e dunque amplissimi poteri a un partito non sufficientemente legittimato dalla sovranità del popolo: esattamente il virus che ha eroso la legittimazione dell’attuale parlamento e ha costretto i partiti a chiedere al presidente Napolitano il sacrificio di un secondo mandato. Anche con riferimento a questo tema, il suo secondo discorso di insediamento è chiarissimo sul punto.

Lo sforzo riformista avrebbe dovuto rafforzare la coesione nazionale attraverso la scrittura di regole comuni e, nel contempo, consentire ai diversi schieramenti di rinnovare la sfida su principi e programmi alternativi. Alla fine del percorso, ci troviamo un paese diviso in due sulle regole che avrebbero dovuto unirlo e i principi espulsi da una contesa politica divenuta mera lotta di potere. Quel che conta è conquistare un senatore in più, al punto che a tale scopo è persino nato un gruppo apposito.

Se è andata a finire così, la responsabilità primaria è del governo e di chi lo guida. Gli atti parlamentari testimoniano la costanza degli apporti migliorativi e delle proposte costruttive avanzate nel corso delle diverse letture della riforma: proposte puntualmente rigettate da un certo momento in poi, che “casualmente” ha coinciso con il raggiungimento del 41 per cento da parte del Pd alle europee del 2014. La storia del ddl Renzi-Boschi si snoda tra giochi spericolati di maggioranze variabili (una per il governo, una per le riforme, un’altra ancora per il Presidente della Repubblica) e l’immonda forzatura dell’apposizione della fiducia sulla legge elettorale per evitare che questa potesse essere discussa nel cotesto generale del nuovo equilibrio istituzionale.

Una riforma della Legge fondamentale dello Stato può essere appoggiata se lascia a desiderare nel merito ma è realizzata attraverso un metodo di forte coesione che rafforza il paese nelle sfide interne e in quelle internazionali. Per quanti non l’hanno mai considerata “la Costituzione più bella del mondo“, è questo il caso della Carta del 1948. Oppure, specularmente, una riforma può essere approvata nonostante il metodo unilaterale se presenta contenuti di tale pregio da far ritenere che lo strappo possa essere riassorbito (in parte – e solo in parte – è il caso della V Repubblica francese). Non ci troviamo di fronte né alla prima né alla seconda situazione. Purtroppo questa riforma è stata condotta in porto con un metodo arrogante che ha portato Renzi a scambiare la leale collaborazione per disponibilità al collaborazionismo e, nel merito, è piena di disarmonie ed errori. Non è meglio di niente. È meglio ricominciare.

 

(Tratto da Huffington Post)