L’eco dei fantasmi in quel 45 giri di John Lennon
06 Febbraio 2011
Quando girò per tre volte la chiave nella serratura della porta blindata era quasi l’una del mattino. “Allora a domani, dottor Ocari”. La voce di Giancarlo, l’autista, riecheggiò per la tromba delle scale, seguita dal tonfo del pesante portone che si chiudeva.
“Cristo, quando capirà che non deve fare rumore? È tardi”. Lo disse talmente a bassa voce che era come se avesse paura di farsi sentire anche da se stesso. Era infastidito. Odiava l’idea di svegliare qualcuno, di farsi notare mentre rientrava a notte fonda. Appese il cappotto, poi prese dalla tasca interna il suo portasigarette d’argento.
Si lasciò cadere sulla poltrona di velluto, l’unica che utilizzava veramente. Si tolse le scarpe. Era amareggiato, ma sapeva che non era colpa solo della mancanza di tatto di Giancarlo. Tutto sommato però capì che non aveva voglia di lasciarsi andare a chissà quali pensieri sulla sua situazione. Doveva riposare un po’, tutto qua. Anche perché, a dirla tutta, di ragioni per star male, in fondo, non ne aveva.
Lavorava per una grande azienda, come Amministratore Delegato. Gli piaceva, tanto da aver ormai istaurato con il potere che gestiva un rapporto quasi tranquillo, pacifico. Certo di compromessi ne aveva ingoiati tanti, ma il risultato non si era fatto attendere. Adesso le cose, seppur sempre tremendamente frenetiche, seguivano una routine ben precisa. Sicuramente non sentiva più da tempo la passione che l’aveva reso ciò che era, ma anche questo compromesso, cioè quello con l’età che avanzava, l’aveva accettato, e non poteva sicuramente lamentarsi.
Abitava in una casa bellissima, centotrenta metri quadri in un palazzo dell’Ottocento, raffinata come solo le case antiche sanno essere, ma perfettamente funzionale. Certo, lo sarebbe stata di più se ci avesse abitato qualcuno. Aveva divorziato dalla moglie dopo che era venuto a sapere di una relazione piuttosto intima fra lei e un chitarrista jazz che conobbe a un concerto organizzato da un amico che lavorava per una casa discografica.
Provò a prendere la cosa con filosofia, anche memore di quella volta in cui accompagnò a San Pietroburgo la trentacinquenne e avvenente responsabile marketing della sua azienda. E di quell’altra volta, clamorosa, in cui riuscì a sedurre il suo capoufficio quando ancora era un ragazzo rampante.
Di sicuro, però, la storia della moglie non la prese troppo bene. Soprattutto perché non fu lui a chiedere il divorzio. Da parte sua, avrebbe accettato un altro compromesso, l’ennesimo, forse il più pesante da digerire. Ed eccolo lì adesso, seduto sulla sua poltrona, solo in quel piccolo lasso di tempo che lo divideva dalla giornata successiva, come un limbo oscuro che da un po’ era diventato l’unica cosa veramente sua. Era stanco, ma non aveva sonno. Capitava spesso. Accese la radio. Le note che provenivano dall’altoparlante le riconobbe subito. Era la voce di John Lennon, che cantava Give peace a chance.
Quando faceva il liceo amava i Beatles. Aveva tutti i dischi in vinile. Rimase deluso quando la band si sciolse ufficialmente, nel 1970. Aveva diciassette anni, allora. Era impegnato nella politica studentesca. Simpatizzava per la sinistra, anche se forse il suo era più un impeto adolescenziale che una vera e propria convinzione in quell’idea politica, in cui oggi davvero non si riconosceva più. Ma allora si divertiva, eccome. Amava la vita ma l’odiava al tempo stesso.
Sapeva godersela, su questo non c’era dubbio, ma era persistente in lui una rabbia che a volte era quasi cieca. Semplicemente gli piaceva quello che faceva, ma quello che vedeva lo deprimeva. Fu in quel periodo, mentre la sua adolescenza esplodeva in un fiume di passione e ribellione, che imparò a costruirsi un mondo ideale, e cominciò a viverci dentro. Un mondo in cui tutto è immutabile, in cui ogni emozione rimane impressa per sempre e viene amplificata. In cui la tristezza è fondamentale perché rappresenta un rifugio sicuro, il migliore modo di trovare sé stessi. Imparò cosa volesse dire vivere non di uomini o di cose, ma di fantasmi.
Conobbe l’unico mondo perfetto. L’unico mondo in cui si poteva essere felici veramente. La canzone di John Lennon gli fece ritornare alla memoria un disco, un quarantacinque giri che doveva avere ancora da qualche parte, nel suo mobile stereo, in cui molti dischi non c’erano più perché Lucia, quando se ne era andata, l’aveva portati via. Cominciò a sfogliare i vinili, pezzi della sua storia personale che un tempo per lui erano stati fondamentali, ma che da anni aveva preferito non recuperare, per mancanza di tempo o per motivi a cui non voleva nemmeno pensare.
Eccolo. Esisteva veramente. Imagine, John Lennon, 1971. Il suo ultimo anno di liceo. Ma, soprattutto, Lucia. Gliel’aveva regalato lei, quel quarantacinque giri. Lo mise nel giradischi, ma non prima di averlo accuratamente spolverato. Tutti gesti che gli sembrava non facesse da una vita. Le note di pianoforte iniziali, nella loro dolcezza, ebbero per lui l’effetto di martellate. Abbassò il volume, finché il suono non divenne quasi un sussurro. Ma non erano i suoi timpani ad essere stati colpiti. Era ben altro.
Quando si fidanzò con Lucia aveva appena compiuto diciotto anni. Lei era tremendamente attratta dal suo carisma, dal suo fare un po’ da filosofo e un po’ da ragazzaccio. Facevano lo stesso liceo classico. Condividevano non solo la passione per la musica e per i Beatles, ma anche quella capacità di trastullarsi nella propria tristezza di cui lui era indubbiamente un maestro. In pratica, anche Lucia, come lui, viveva in un mondo molto distante da quello reale. Il mondo dei fantasmi. Ecco, i loro mondi si erano incrociati, compenetrati, tanto che l’uno divenne il protagonista del mondo dell’altra. Tutto era talmente romantico e immutabile che il reale, la vita vera, cominciava a fare paura.
Fu con quello spirito che si sposarono, quando lui compì ventiquattro anni. Fu così che cominciarono a rendersi conto che avrebbero tanto voluto continuare a vivere nella dimensione ideale, ma che la realtà era un’altra. Si laurearono, lei in lettere, lui in economia. A dir la verità neanche gli piaceva più di tanto, ma fu il padre a convincerlo.
Lucia divenne un’insegnante di scuola superiore. Nel periodo in cui viaggiava da una parte all’altra della provincia per fare delle supplenze, nacque Felicia. Scelsero questo nome perché pensarono che lei dovesse essere la personificazione della loro felicità. Quella bambina sarebbe stata il collegamento fra il mondo ideale in cui si ostinavano a vivere e il mondo reale in cui erano costretti. Era l’otto dicembre del 1980. Poco dopo che Lucia uscì dalla sala operatoria, alla radio diedero la notizia che a New York un folle aveva sparato a John Lennon.
“You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one…” Quante volte l’aveva cantato a squarciagola, quel ritornello? Alle manifestazioni, con i suoi amici. Con Lucia, abbracciato stretto, mentre respirava a pieni polmoni il suo profumo, mischiato all’odore delle sigarette. Cosa fosse davvero il mondo reale, finì con l’impararlo in fretta. E lo imparò talmente bene che gli fu chiaro, in poco tempo, che era possibile vivere senza tutto quel romanticismo, che se da una parte rimaneva un tesoro prezioso che era contento di aver portato fino a quel momento, allo stesso tempo si era fatto un fardello pesante e un po’ troppo scomodo. Si può essere felici nel mondo reale. L’importante è realizzarsi nel lavoro, avere una situazione economica tranquilla e buoni rapporti con la propria famiglia.
Ma se il suo nuovo modo di concepire la vita aveva convinto lui, non sembrava attecchire altrettanto su Lucia. Si rese conto che il suo progetto di famigliola felice faceva acqua solo quando Lucia glielo disse chiaramente, ritrovandosi a elemosinare un po’ di tempo per lei e ricordandogli che la figlia, che aveva ormai dieci anni, non vedeva il padre da quasi un mese.
“Chi vive nel mondo ideale difficilmente ne esce. Prima o poi ci tornerai”. Lì per lì questa frase, pronunciata da Lucia con gli occhi lucidi, destò in lui solo la rabbia di colui che si sente incompreso e non accettato. Se ne andò sbattendo la porta.
Mentre teneva fra le mani l’involucro di cartone del disco ebbe un sussulto. Si accorse che sulla copertina, in basso a destra, c’era una scritta, fatta a penna. Riconobbe la calligrafia. Sentì il cuore impazzire. Sudava. La musica gli pareva sempre più forte.
Pianse come non faceva da tempo, come solo un diciassettenne sa fare. “Forse… forse c’è ancora tempo”. Squillò il telefono. Si accorse di essersi addormentato. La puntina del giradischi era saltata. Rispose automaticamente, quasi senza pensarci. “Mi scusi, dottor Ocari, ma è tardi” Sentì il cuore fermarsi. Per alcuni attimi smise di respirare. “Pronto, dottor Ocari? No, scusi, dicevo che fra venti minuti dobbiamo stare alla stazione. Mi sente? È…” “Sì. È tardi, lo so”. Riattaccò e rimase a fissare il cellulare per qualche secondo. Sullo schermo lampeggiava l’ora. Le cinque e trentotto. Raccolse la giacca, il cappotto. Si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Prese il disco, cercando di riporlo il più velocemente possibile lì sullo scaffale, nella polvere, dove l’aveva trovato. Ma non riuscì ad evitare di rileggere quel messaggio, poche parole scritte a penna, ormai sbiadite. “John non è l’unico. Perché a sognare ci siamo ancora io e te. Ti amo, Lucia”.