L’economia degli Usa è al palo perché il bailout è stato un fallimento

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L’economia degli Usa è al palo perché il bailout è stato un fallimento

05 Settembre 2011

L’America non è più il Paese delle opportunità. La crisi presenta il conto e a far male alla salute della prima economia del mondo non è soltanto il debito pubblico. Il vero problema, la zavorra che blocca la ripresa è un altro: i dati sull’occupazione sono orribili. Le imprese non assumo più. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, nel mese di agosto il saldo netto tra nuove assunzioni e licenziamenti è stato pari a zero. Non si crea nuova occupazione, il tasso di disoccupazione resta inchiodato al 9,1%. E’ un dato peggiore delle aspettative, che conferma i timori di una ricaduta nella recessione e che venerdì ha fatto precipitare le Borse. L’effetto degli aiuti di stato (i fondi Tarp) è evaporato proprio quando sull’economia americana incombe la minaccia di una seconda recessione. Adesso la debolezza dell’economia reale si riflette sulla domanda di credito. Le famiglie iniziano a risparmiare  e una quota crescente del reddito disponibile viene destinata a estinguere i debiti. E se i consumatori non spendono le imprese rinunciano agli investimento. Così la produttività langue e non si creano nuovi posti di lavoro. Insomma salvare i giganti di Wall Street, quelli “too big to fail”, non è servito.  Se “Main street” non torna a respirare, saranno tempi duri.

Sono oltre 25 milioni gli americani alla ricerca di un lavoro e sulla Casa Bianca piovono critiche. Da una parte i repubblicani  rimproverano a Obama di schiacciare l’America sotto il peso del debito pubblico e lo ritraggono come l’amico dei banchieri. Dall’altra, i liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz lo rimproverano per aver varato piani di sostegno all’economia giudicati troppo leggeri. Mercoledì il presidente ci riproverà e presenterà  al Congresso, riunito in seduta congiunta, il suo piano per il lavoro. Nessuno conosce le proposte del presidente, ma alcune indiscrezioni sono uscite. È probabile che Obama proponga una nuova “banca per le infrastrutture” per ricostruire una rete di autostrade, ferrovie, acquedotti logorata da decenni di incuria; forse prometterà di ridefinire alcuni accordi per il commercio estero, in modo da limitare le importazioni e far crescere le esportazioni. Inoltre potrebbe offrire nuovi sgravi fiscali a chi crea posti di lavoro. È difficile immaginare che un piano di questo genere possa rovesciare le sorti dell’economia in pochi mesi, in una situazione internazionale così precaria.

Ma all’America serve soprattutto fiducia e Obama spera nell’aiuto di Ben Bernanke. Il presidente della Fed, però, ha già ammesso che la politica monetaria non ha più cartucce da sparare. “Non esiterei a mettere mano agli elicotteri per inondare le strade di denaro», aveva detto il custode del dollaro con riferimento era alla ricetta del suo maestro Milton Friedman per combattere la deflazione. Ma  dopo tre anni di “alleggerimento quantitativo” e 2.300 miliardi di dollari pompati nell’economia Bernanke non può fare di più perché “le politiche economiche di supporto a una crescita duratura sono al di fuori del raggio d’azione di una banca centrale». Così la settimana scorsa ha detto che prima di decidere cosa fare  aspetterà Obama. Se la Fed si defila tutto è nella mani di Obama e del Congresso. Solo la politica può salvare dalla recessione quella che lo stesso Bernanke ha definito «ancora la più grande economia mondiale», dopo che, nelle ultime tre settimane, le più importanti banche d’affari, da Morgan Stanley a Goldman Sachs, da Citigroup a JP Morgan, hanno rivisto al ribasso le stime sul Pil 2011 degli Usa, che nel secondo trimestre, dato di oggi, si è assestato a +1%, moderatamente al di sotto delle aspettative, che lo davano a +1,3 per cento. Appuntamento al 7 settembre.