L’economia dell’Africa deve uscire dalla trappola degli aiuti umanitari

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L’economia dell’Africa deve uscire dalla trappola degli aiuti umanitari

21 Agosto 2009




Un rapporto reso noto di recente dalle Nazioni unite rileva che la recessione ha comportato una diminuzione di 4,8 miliardi di dollari (3,4 miliardi di euro) nei finanziamenti stanziati per il 2009 a favore dei programmi di sostegno ai Paesi in via di sviluppo; si tratta di più della metà del budget inizialmente previsto, che ammontava a 9,5 miliardi di dollari.





Per un verso si tratta di una cattiva notizia, perché l’Onu svolge un’attività di alto valore in campo umanitario. D’altro canto, tali ristrettezze potrebbero costringere il Palazzo di vetro a riconsiderare i suoi aiuti ai paesi del terzo mondo. L’Onu continua a spendere soldi delegando la realizzazione dei progetti per lo sviluppo a organizzazioni governative e non governative. Ma non è questo il modo di eliminare la povertà: soltanto l’economia locale può farlo.





Invece di aiutare l’economia dei paesi poveri, l’Onu continua a privilegiare l’attuale sistema di aiuti con tutta la sua schiera di celebri testimonial quali la rockstar Bono, l’economista Jeffery Sachs della Columbia University, o Bill Gates con la sua Fondazione. Lo fa perché ritiene che i paesi ricchi abbiano la tecnologia di cui hanno bisogno i paesi poveri, e la ricchezza per dargliela.





Questa filosofia ha sostenuto con entusiasmo, per anni e anni, la tesi del Big Push ( la "Grande Spinta"),



ossia l’idea secondo cui macro-cambiamenti mirati avrebbero portato a una crescita equilibrata; idea che è stata ripresa negli appelli fatti di recente da una moltitudine di celebrità, che chiedono all’occidente di salvare l’Africa.









Però, da un punto di vista economico, come possono funzionare politiche di questo genere? Secondo quanto si legge in Africa Unchained di George Ayittey, White Man’s Burden di William Easterly, e Dead Aid di Dambisa Moyo, in effetti non funzionano. Questi lavori documentano non soltanto che gli aiuti non hanno reso affatto più prospere le nazioni alle quali sono stati elargiti, ma anche che l’attuale sistema di intervento umanitario continua a ripetere le stesse iniziative nonostante l’ormai assodata evidenza che non funzionano.



La cruda realtà non è tenera verso chi sostiene che, se la domanda è “crescita”, “aiuti” è la risposta necessaria. Né afferma, peraltro, che la risposta esatta risieda nel sospendere gli aiuti.









Senza dubbio Ayittey, Easterly e Moyo hanno ragione nel sostenere che gli ultimi quarant’anni sono stati un disastro. Ma quel fallimento non era inevitabile, e non c’è bisogno che continui. Andando indietro nel tempo, troviamo infatti un programma d’aiuti che ha funzionato, eccome: il Piano Marshall del 1948-51. L’America postbellica era ricca, l’Europa era povera, e il Piano Marshall aiutò l’Europa e recuperare. I sostenitori di ancora più aiuti attraverso il sistema attuale propongono che si attui subito un Piano Marshall per i paesi poveri. Hanno ragione?





Sì, hanno ragione, ma il perché potrebbe sorprenderli. Molte delle esortazioni per attuare un nuovo Piano Marshall partono da persone che non hanno ben compreso quello che, in quell’occasione, venne in realtà realizzato. L’idea sbagliata è che il piano diede in dono cibo, medicine, vestiti e ricostruì le infrastrutture degli Stati come porti, strade, reti idriche. In realtà, il Piano Marshall non è stato un programma di carità né di aiuti infrastrutturali, bensì di supporto alle economie locali. Garantiva prestiti alle compagnie europee, che poi li restituivano ai propri governi, i quali li spendevano in infrastrutture. Per accedere al Piano, una nazione doveva attivare alcune politiche commerciali che assicurassero il corretto uso dei prestiti da parte dei beneficiari.





Ci si consenta a questo punto di tracciare un parallelo con l’attività propria del filantropo Bill Gates, e di dividere gli aiuti per lo sviluppo in due parti: hardware e software. L’hardware sono i porti, le strade, le centrali idroelettriche del Piano Marshall, o i medicinali, i fertilizzanti, e tutte le cose donate dall’attuale sistema di aiuti. Il software sono i prestiti e il meccanismo di finanziamento del Piano Marshall, oppure i progetti sviluppati dai governi o dalle Ong nel quadro dell’attuale politica di aiuti. La differenza più evidente è che il software del Piano Marshall funziona, mentre quello dell’attuale sistema di aiuti no.





L’Onu ha ragione, ovviamente, ad occuparsi della profonda povertà in cui versa l’Africa subsahariana. Ma deve prendere una strada diversa. Abbiamo bisogno di politiche che producano una differenza nel software della prosperità – le regole, le politiche e le istituzioni che gestiscono il modo in cui l’economia opera in una nazione, e il meccanismo di aiuto finanziario che può aiutare o danneggiare l’economia locale. La crisi globale è chiaramente un problema di software. Si tratta proprio di quello che tutti, nei paesi ricchi, stanno cercando di aggiustare. Anche la povertà è un sistema di software, però il sistema degli aiuti ha tentato di aggiustare l’hardware, ritrovandosi poi col software sbagliato. Il Piano Marshall era quello che ci voleva per l’Europa uscita dalla guerra. Non è troppo tardi per correggere gli errori e fare le cose giuste per i paesi poveri.





Glenn Hubbard è stato presidente dello US Council of Economic Advisers e ha insegnato alla Columbia Business School. Il suo ultimo libro, The Aid Trap (La trappola degli aiuti), sarà a breve in libreria.


Tratto da Financial Times

Traduzione di Enrico De Simone