L’economia Usa non va e ora Romney è a un solo punto da Obama
20 Luglio 2012
di Andrea Doria
“If you’ve been successful, you didn’t get it on your own. …If you got a business, you didn’t build that”, se hai avuto successo, non te lo sei fatto da solo. … Se hai un’impresa, non l’hai costruita tu”. E’ quanto ha osato affermare, in America (!), il presidente Barack Obama durante un discorso di campagna elettorale nello Stato della Virginia.
E non v’è da stupirsi se nella nazione dell’American dream, del sogno americano, il luogo ove per secoli uomini e donne da tutto il mondo sono sbarcati per fuggire da persecuzioni di vario genere o dalla povertà delle terre natali per costruire un futuro di prosperità e benessere fondato sulla responsabilità dell’individuo e la libertà dall’autorità (che per il padre fondatore USA Thomas Jefferson doveva esprimere al massimo un ‘saggio e parco governo’), un’uscita del genere abbia scatenato un putiferio mediatico.
A Roanoke, Obama sembrava un pastore della teologia nera della liberazione: le grida di sostegno degli astanti, a ogni frase pronunciata, sembravano quasi degli “Eimen!”, gli stessi che si odono nelle Chiese nere. E che il presidente Usa assomigli a un pastore nero non stupisce. Il mentore cristiano di Barack Obama, ma ne ha avuti anche di musulmani a quanto pare, il controverso reverendo della liberazione Geremia Wright, è stato un uomo di religione appartenente proprio alla teologia nera della liberazione (che per intenderci tiene insieme il pensiero di uomini di Chiesa come Francesco d’Assisi, Papa Leone XIII, Dr. King e quello di gentili d’estrazione marxista come Tony Negri).
Insomma mancano meno di quattro mesi alla prossime elezioni presidenziali statunitensi, nelle quali si affronteranno il democratico Barack H. Obama e il repubblicano Mitt Romney, e la profezia del noto commentatore conservatore e firma del Washington Post Charles Krauthammer sul fatto che la campagna presidenziale del 2012 sarebbe stata “più sgradevole degli ultimi quarant’anni” sembra realizzarsi in tutto e per tutto.
Se da una parte il team elettorale di Romney gioca di rimessa in considerazione dal crescente vantaggio elettorale portato in dote dal peggioramento dei dati macroeconomici americani – che vede in aumento il tasso di disoccupazione e in diminuzione il volume della produzione industriale -, e che sta producendo un aumento degli indecisi negli swing states secondo i sondaggi in circolazione realizzati sugli elettori registrati che storicamente si spostano in proporzione maggiore verso lo sfidante piuttosto che sul presidente uscente, il team Obama è invece all’attacco, una strategia da politica alla Chicago, da gangster, come la definisce a ogni pie’ sospinto Karl Rove.
Infatti la strategia di David Axelrod, il capo del team elettorale del presidente Obama, si articola su due diverse tattiche. La prima è attaccare a mani basse il candidato Repubblicano tanto sul piano familiare che sul suo passato imprenditoriale (e meno male che Romney ne ha uno: come ha fatto notare quel genio della comunicazione pop che è Donald Trump, l’unica attività economica che il presidente Obama abbia mai realizzato in vita sua “è stato acquistare una casa” a Chicago).
Gli attacchi al fondo di PE Bain Capital fondato tra gli altri proprio a Mitt Romney decadi fa, così come gli attacchi ad Ann Romney per la sua passione per l’equitazione, sport considerato da ricchi e forse usato dalla moglie del candidato Repubblicano in funzione anti-cancro, un male del quale ha sofferto anni fa, rientrano proprio in questa strategia. Anche l’ossessiva richiesta fatta dai media obamiani per il rialscio da parte del team Romney della dichiarazione dei redditi di dieci anni fa di Mitt Romney rientra nell’attacco personale (è lecito pensare che il team Obama ne abbia letto copia magari con l’aiuto dell’IRS).
La seconda via seguita da Axelrod è quella di ri-segmentare il messaggio politico del presidente, rimodulando la retorica di sinistra dell’unità e delle differenze di classe fondate sul reddito disponibile, balcanizzando la società americana nel gioco delle minoranze, siano esse quelle degli omosessuali, dei latinos, dei neri o dei colletti blu. Una zapaterizzazione quella di Obama di cui questo giornale ha già dato conto in passato e che rischia però di non ricondurre alla vittoria il presidente uscente. E’ politica che forse porta frutti ma che taglia fuori la classe media americana (un recente sondaggio sulle intenzioni di voto dei latinos in America racconta una predisposizione che giunge al 70% degli elettori latino americani, a votare il candidato democratico).
Ciononostante, per quanto Obama oggi mantenga un sottile vantaggio in certi Stati, la marcia di Mitt Romney sembra sostenuta. L’ultima media dei vari sondaggi offerta da Realclearpolitics nella sfida tra Romney e Obama, danno il presidente uscente in vantaggio con un misero 1,2% , poco, molto poco se confrontato con il 7% di vantaggio che l’inquilino della Casa Bianca aveva sul suo rivale Repubblicano solo sei mesi or sono.