L’economia Usa vola e spinge Trump verso il secondo mandato
15 Maggio 2019
di Vito de Luca
Il viso di Donald Trump potrebbe diventare una compiaciuta polena a prua del veloce transatlantico a stelle e strisce (ma potremmo chiamarlo anche, con un gioco di parole, trans-pacifico, riferendoci a quelle parti terracquee del globo terrestre), con un potente soffio alle spalle che gonfia la vela verso le elezioni presidenziali Usa del prossimo anno. Un ghigno soddisfatto appoggiato dal ciclone dell’economia. Già, poiché da sempre l’economia – autentica clavis aurea, chiave di lettura preferenziale dell’agone politico-sociale – è uno degli argomenti più sentiti negli Stati Uniti. Un elemento spesso anche decisivo nella corsa alla Casa Bianca. Non può essere un caso infatti che, fin dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, ogni singolo presidente che sia riuscito ad evitare una recessione nell’anno che precede le elezioni sia stato poi confermato per un secondo mandato. L’economia in forte espansione può effettivamente rappresentare la carta vincente di Trump, e in suo favore non ci sono solo i precedenti storici. Secondo un recente sondaggio del Wall Street Journal/Nbc News, il 51% degli americani disapprova il tycoon inquilino alla Casa Bianca, ma allo stesso tempo sempre il 51% approva il suo operato in campo economico. Il tasso di crescita del Paese durante il suo primo anno di mandato è stato del 2,3%, raggiungendo nel 2018 il 2,9%: il più alto dal 2015.
La disoccupazione è ai minimi storici da oltre 50 anni, come abbiamo ricordato in un altro articolo, e la striscia di creazione dei posti di lavoro iniziatasi sotto Obama continua tuttora, toccando i 103 mesi consecutivi. Insomma, un record. Una prossima recessione sembra quindi decisamente inverosimile – seppur qualche economista abbia avanzato l’ipotesi che l’effetto riforma fiscale sia a corto raggio – anche se bisognerà constatare se l’economia manterrà il tasso di crescita attuale. Fra le incognite principali in questo senso, in Europa molto malvista, c’è la guerra commerciale con la Cina, che, sul piatto della bilancia, ha calato, da parte sua, la mole impressionante di 60 miliardi di dollari in dazi.
I democratici americani, sul boom provocato dal presidente oramai Re-Mida, hanno poco da obiettare, se non puntare il dito sul fatto che questa crescita Usa, secondo loro, non tocchi tutti gli angoli del Paese, aggravando sempre di più il divario e l’ineguaglianza sociale. Inoltre, Trump, proprio per l’aria che tira, potrà farsi scudo di fronte a presunti «scandali» presidenziali, che spesso riemergono con metodo, e che inevitabilmente verranno resuscitati nel vano tentativo di rovesciare l’attuale presidenza. Ogni candidato alla presidenza sa tuttavia perfettamente che sarà appunto l’economia uno dei temi cardine del 2020, con moltissimi elettori disposti a passar sopra a ipotetiche inchieste, tweet e altro ancora, ma non allo stato delle casse dello Stato, Oltreoceano diventate ora un forziere grazie all’intervento strutturale di stampo liberale – per l’abbattimento fiscale sulla produzione industriale – e di marca protezionista sugli scambi commerciali mondializzati. «It’s the economy, stupid!», diceva James Carville in qualità di stratega di Bill Clinton nella vittoriosa campagna del 1992 contro il presidente uscente George H. W. Bush. E nel 1991, tanto per ricordarlo, il Paese era in recessione.