Legge 194, la mozione parlamentare di Sandro Bondi

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Legge 194, la mozione parlamentare di Sandro Bondi

Legge 194, la mozione parlamentare di Sandro Bondi

09 Gennaio 2008

Pubblichiamo il testo della mozione parlamentare che Sandro Bondi, vicecoordinatore di Forza Italia, ha presentato il 5 gennaio scorso alla Camera

Sono
passati trent’anni dall’introduzione della legge n. 194 sull’interruzione di
gravidanza, una legge che ha permesso di combattere l’aborto clandestino e che
ha cercato di contenere la piaga dell’aborto considerato sempre un dramma
sociale ed individuale e, in ultima istanza, ha garantito la libera
determinazione della donna; grandi cambiamenti sono avvenuti sia nel costume, sia nelle pratiche mediche e
sia nelle tecniche diagnostiche; a quasi trent’anni dall’introduzione della legge sull’interruzione di
gravidanza in Italia, i grandi cambiamenti intervenuti nel costume, nelle
pratiche mediche e nelle tecniche diagnostiche, rendono indifferibile un
adeguamento della legge attraverso l’emanazione di linee guida da parte del
Ministero della salute; il dibattito è stato aperto da casi concreti che hanno scosso l’opinione
pubblica. Per esempio quello di Tommaso, il bimbo abortito alla 23a
settimana per una diagnosi di atresia dell’esofago all’ospedale Careggi di
Firenze, e poi nato vivo. La vicenda è finita sui giornali (marzo 2007) per una
doppia anomalia: perché il bimbo è sopravvissuto autonomamente alcuni giorni, e
perché la malformazione diagnosticata dai medici (peraltro operabile nella
stragrande maggioranza dei casi) non c’era.

uanti casi del genere accadono? Quante diagnosi prenatali che portano ad
interrompere la gravidanza si rivelano poi sbagliate? Quanti bimbi abortiti
nascono vivi? Nello stesso periodo una ginecologa del San Camillo di Roma
dichiarò pubblicamente che il problema dei nati vivi, nel suo reparto veniva
risolto facendo preventivamente decidere alle madri, grazie al consenso
informato, se volevano che il bimbo venisse o no rianimato; è evidente che una legge che lasci questo tipo di scelte ai singoli ospedali,
permettendo che ciascuno si regoli come meglio creda (fino a legittimare con il
consenso informato l’omissione di soccorso al neonato) manca gravemente di
indirizzi e interpretazioni certe; c’è inoltre il problema dell’introduzione strisciante della pillola abortiva,
la cosiddetta Ru486, utilizzata in palese violazione della legge e contro i due
pareri emessi dal Consiglio Superiore di Sanità (18 marzo 2004 e 20 dicembre
2005) in cui si dice con chiarezza che alla luce delle conoscenze disponibili,
i rischi dell’interruzione farmacologica della gravidanza si possono
considerare equivalenti ai rischi del metodo chirurgico solo se l’intera
procedura abortiva viene completata all’interno delle strutture pubbliche, come
previsto dalla legge 194;

inoltre, nell’ambito del protocollo di intesa siglato tra Governo e regioni per
il patto nazionale per la salute, la legge finanziaria per il 2007 ha stabilito
che l’uso off label di farmaci importati grazie alla cosiddetta legge Di Bella
è accettabile solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche. Nonostante
questo, numerosi ospedali, in almeno 8 regioni (in primo luogo la regione
Toscana), hanno adottato il metodo abortivo chimico grazie alla formula
dell’importazione diretta, richiedendo il primo farmaco necessario, il
mifepristone, all’estero, e utilizzando il secondo, il misoprostol, al di fuori
delle indicazioni previste dal nostro ente di controllo dei farmaci. A Milano
nel settembre 2007, all’ospedale Buzzi, si scopre che un medico ha
«sperimentato» come abortivo su 53 pazienti, senza nessuna autorizzazione
ministeriale, un farmaco, il methotrexate, non ammesso da nessun protocollo
internazionale, e registrato come antitumorale; tutti questi casi configurano l’evidente necessità di indicazioni ministeriali,
sia per fornire interpretazioni certe, sia per raccogliere dati e informazioni;
sulla 194 possiamo contare sui rapporti annuali presentati in Parlamento, e
sulla recente indagine conoscitiva promossa dalla Commissione affari sociali
della Camera dei deputati nel 2006, eppure ci sono dati che non vengono
raccolti e presi in considerazione; le linee guida dovrebbero servire anche a richiedere alle regioni informazioni
attualmente trascurate, per esempio:

a) il numero di colloqui svolti nei consultori e il corrispondente numero di
certificati rilasciati. Questo dato (necessariamente parziale, perché esclude
le donne che si rivolgono ai medici privati) può però fornire un’idea dello stato
di applicazione dell’articolo 2 della legge, cioè della capacità dei consultori
di intervenire per evitare gli aborti, e proporre alle donne aiuti concreti e
soluzioni agli eventuali problemi che le inducono ad interrompere la
gravidanza;

b) il numero di bambini nati vivi in seguito ad aborti tardivi (effettuati cioè
oltre i 90 giorni);

c) quando si tratti di interruzioni di gravidanza tardive, dovrebbe sempre
essere comunicata la settimana di gestazione (e non soltanto l’indicazione
generica «entro i 90 giorni» e «oltre i 90 giorni»);

d) quando, secondo l’articolo 6, l’interruzione di gravidanza viene effettuata
perché sono accertate «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che
determino un grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna»,
l’accertamento diagnostico deve essere verificato dopo l’aborto. È di
fondamentale importanza, infatti, sapere quale effettivo riscontro hanno le
diagnosi prenatali, che spesso si basano non su certezze ma su probabilità;

e) per promuovere politiche di sostegno alle maternità difficili, e campagne
mirate contro l’uso dell’aborto a fini eugenetici, è importante conoscere e
rendere pubblici i dati sulle patologie fetali in base alla quale si ricorre
all’articolo 6. Sarebbe utile compilare annualmente una casistica delle
patologie in base alle quali le donne italiane decidono di interrompere la
gravidanza, e prevedere la raccolta di informazioni (per esempio grazie a un
colloquio con uno psicologo) sui motivi che spingono le donne a non tenere un
figlio diversamente abile.

Oltre a raccogliere nuovi elementi di informazione, le linee guida devono però
fornire alcune indicazioni specifiche per l’applicazione della legge; è opportuno prima di tutto fissare il limite di tempo entro cui è possibile
ricorrere all’aborto, considerando le aumentate speranze di vita per i grandi
prematuri e seguendo le migliori pratiche già adottate in alcuni ospedali. Si
tratta di dare attuazione all’articolo 7, che stabilisce che solo il rischio di
vita della madre può rendere lecita l’interruzione di gravidanza «quando
sussista la possibilità di vita autonoma del feto». La legge 194 non parla di
«probabilità» ma di «possibilità» di vita autonoma del feto, esprimendo la
chiara volontà del legislatore di adottare un criterio di massima cautela. Gli
studi internazionali concordano ormai sull’esistenza di alte possibilità di
sopravvivenza neonatale già alla 22a settimana (Pediatrics, per
esempio, una delle più autorevoli riviste di pediatria nel mondo, organo
ufficiale dell’American Academy of Pediatrics, riporta uno studio norvegese che
parla del 30-40 per cento di sopravvivenza). Il limite temporale (peraltro già
adottato da numerosi ospedali, come la Clinica Mangiagalli di Milano) a cui
sarebbe bene attenersi per evitare che si verifichino casi drammatici, dovrebbe
dunque essere fissato a 22 settimane.

E’ essenziale anche chiarire in cosa consista l’obbligo di effettuare
l’interruzione di gravidanza nella struttura pubblica. Le nuove metodologie
abortive, in particolare quelle di tipo chimico, devono uniformarsi al
criterio, chiaramente stabilito dal legislatore, di mantenere la procedura
abortiva all’interno degli ospedali, con le garanzie di un costante controllo
medico. Bisogna recepire nelle linee guida la sostanza dei due pareri già
citati espressi dal CSS, in cui si ritiene equivalente il livello di rischio
tra metodo chirurgico e farmacologico solo se l’aborto viene completato in
ospedale. Va quindi specificato che l’intera procedura abortiva va effettuata
in regime di ricovero; oppure è necessario chiarire che per interruzione di
gravidanza si intende l’espulsione dell’embrione o del feto, e non soltanto
l’atto medico (per esempio l’assunzione di un farmaco) finalizzato
all’espulsione dell’embrione. In questo modo, anche introducendo nuovi metodi
abortivi, si esclude il rischio dell’aborto a domicilio e di pratiche selvagge
che sfruttino il divario tra la lettera della legge e le nuove metodologie, impegna il Governo a prevedere linee guida per un’applicazione piena, coerente ed omogenea della
legge e che tenga conto dei progressi tecnicoscientifici che in questi
trent’anni si sono verificati.Â