Legge elettorale, Walter al bivio tra il professore e il messia
11 Gennaio 2008
Chi conosce
le peripezie di Walter Veltroni in versione Primo Cittadino di Roma non
dovrebbe stupirsi: il gioco su più tavoli che il segretario Pd e i suoi
fedelissimi sembrano aver avviato sul fronte della legge elettorale ricalca
alla perfezione quel che dal 2001 avviene nella roccaforte capitolina, dove il
sindaco e il suo potentissimo gabinetto sono riusciti a far convivere, felici e
contenti, no-global e palazzinari, transfughi azzurri approdati nell’Udeur e
rifondatori duri e puri, “baciapile” conclamati e ferventi anticlericali, fondamentalisti
dell’ambientalismo e influenti industriali detentori di una larga fetta del
mercato della monnezza.
Stavolta,
però, il gioco potrebbe rivelarsi ben più pericoloso perché, a differenza di
quanto accade nella capitale, nel teatro nazionale lo scettro del comando non è
nelle mani di Veltroni, bensì di un premier la cui sopravvivenza al potere è
ogni giorno più inconciliabile con la buona riuscita del percorso di trattativa
avviato dal leader del Pd sul fronte della riforma elettorale. Non che il
black-out sull’esecutivo e la fine del logorante dualismo sia per il segretario
democratico un’ipotesi negativa, s’intende; ma l’aspirazione è naturalmente
inconfessabile, e per le stesse ovvie ragioni non è stato facile, per Veltroni,
respingere l’offensiva post-natalizia di Massimo D’Alema, che – secondo i
rumours – avrebbe recato in dote addirittura la profferta da parte dell’Udc
della salvezza per la maggioranza (oggi o eventualmente in un domani
post-elettorale) in cambio di una legge decisamente proporzionale.
Nel quadro
magmatico di veti e alleanze, a far da spartiacque resta il pronunciamento
della Consulta sull’ammissibilità dei referendum elettorali, e la eventuale
successiva consultazione popolare. Possibilità che i partiti di medie
dimensioni – non abbastanza piccoli per trattare con i “grandi” senza perdere
identità e non abbastanza grandi per coltivare ambizioni maggioritarie – temono
come fosse il diavolo. Di qui la divaricazione tra Rifondazione comunista e i “cespugli”
della sinistra radicale. Di qui, forse, la pressione dei “nanetti” dell’Unione
per ottenere il vertice tra i capigruppo parlamentari e il ministro Chiti,
fissato dapprima per martedì, subito prima della riunione della Commissione
Affari Costituzionali del Senato nella quale è in discussione la bozza Bianco,
e poi anticipato a lunedì.
Nel
centrodestra le geometrie non sono meno variabili: Gianfranco Fini non sembra
ancora aver deciso cosa fare da grande, se la destra di un polo moderato o
l’improbabile ancella della “cosa bianca” vagheggiata da Casini e compagni e,
per altre ragioni, da D’Alema. Leggendo in controluce le ripetute dichiarazioni
dei colonnelli di quella che era la corrente “destra protagonista” –
considerata più vicina a Berlusconi – si percepisce la preoccupazione di
decifrare, e se possibile reindirizzare, la traiettoria intrapresa dal
manovratore. Anche perché Casini, che ingenuo non è, ha ben compreso che il
posto lasciato vuoto da An al tavolo della trattativa sulla legge elettorale
potrebbe essere funzionale a lui per recitare con Forza Italia la parte del
“figliol prodigo”, e cercare di strappare a Veltroni un sistema decisamente
proporzionale.
Ma la
variabile con cui l’ex presidente della Camera sembra non aver fatto bene i
conti è proprio il partito del Cav. Che, per bocca degli azzurri schierati in
prima linea, gli ha prontamente fatto sapere che ben venga la sua
partecipazione al dialogo, ma che non sia per dettar legge. Anche perché – e
qui veniamo all’incognita principale – il peso specifico di ogni partito nella
trattativa lo si potrà comprendere solo all’esito del vertice di lunedì,
quando, fra le alternative possibili, Veltroni e i suoi avranno deciso quale
strada intraprendere.
Il
segretario del Pd sostiene che con “un po’ di buona volontà” si sarebbe “ad un
passo” dal trovare la quadra attorno ad un progetto che rappresenti un sistema “di
transizione verso un assetto compiuto”. Quale che sia l’uovo di Colombo che
Walter ha in mente, lunedì si troverà di fronte ad un bivio: rovesciare il
tavolo con Forza Italia e piegarsi ai “nani” salvando Prodi, oppure spaccare la
maggioranza e ampliare il raggio del dialogo, assumendosi la responsabilità di
mettere a rischio l’esecutivo. Sempre che nel frattempo qualche alleato
riottoso non cambi idea.