Leggere Annapolis. Gli eventi di ieri e quelli di domani
28 Novembre 2007
di Fiamma Nirenstein
In un vento sferzante, la baia increspata,
i dignitari di 49 stati fra gli stucchi della sala del Memorial Hall
dell’Accademia navale e i giornalisti nello stadio di fronte a un
grande schermo, cosa abbiamo visto in definitiva? Un’opportunità
storica, come l’ha definita Bush, che con una serie di passi successivi
porterà alla pace fra Israele e palestinesi? Una strizzata d’occhio fra
Paesi moderati, Usa, Quartetto e soprattutto Paesi arabi moderati che
allude non tanto al Medio Oriente, quanto a un’asse che blocchi
l’atomica di Ahmadinejad? Oppure si è aperto un vaso di Pandora in cui
le forze estremiste scateneranno attentati per bloccare ogni speranza?
È stato un successo o un fallimento la conferenza di Annapolis, voluta
da Condi Rice e da George Bush, riuscita nell’affluenza solo grazie a
funambolici giochi d’interessi incrociati?
Possiamo capirlo in due modi: guardando agli eventi di ieri e a quelli
di domani. Ieri: George Bush, da parte sua, ce l’ha fatta. Ha fatto
firmare il documento comune a Olmert e ad Abu Mazen sette minuti prima
di salire sul palco; ha radunato una schiera di leader mondiali, tra
cui 16 dai Paesi arabi, una brutta sorpresa per l’Iran e i suoi amici,
tanto da suscitare persino le telefonate degli hezbollah ai siriani. Ha
portato il re saudita ad applaudire Olmert, anche se non gli ha dato la
mano, e la tv saudita ha trasmesso il discorso in ebraico. La Siria
invece ha trasmesso una partita di calcio, ma Bush ha costretto anche
Bashar Assad a mandare almeno un viceministro.
Sul fronte israelo-palestinese, Bush è riuscito a portare a casa il
documento che unisce i contendenti di sempre in un patto di cui si
dovrà dar conto giorno dopo giorno solo a lui, grande mallevadore e
responsabile. Li impegna a porre fine allo spargimento di sangue,
promette due Stati per due popoli, impegna a propagare una cultura di
pace e di non violenza, a lanciare subito negoziati bilaterali
definitivi e totali. L’accordo dovrà essere concluso, dice il documento
firmato dai tre, entro la fine del 2008. Ci sono anche i particolari
dei lavori: Olmert e Abbas, aiutati da una squadra, dovranno
incontrarsi ogni quindici giorni, e da subito: il 12 dicembre 2007.
Concludere prima della fine del mandato di Bush è la parola d’ordine,
del tutto nuovo sarà il modo in cui Bush intende controllare il lavoro,
e probabilmente questo sarà oggetto di maggiori contese: la Road map,
il documento del 30 aprile 2003, sarà la pietra angolare della retta
via, e solo Bush avrà il diritto di decidere se il documento che
stabilisce come si arriva a una soluzione bilaterale viene onorato: e
poiché la Road map prevede che le concessioni territoriali e di
sicurezza avvengano dopo che i palestinesi avranno combattuto
fattivamente il terrorismo, lo strumento di controllo e quindi anche
dell’eventuale rovesciamento delle priorità sarà in mano agli Usa,
affidato alla loro discrezione.
Nel suo discorso, poi, Bush ha ripetuto che i due popoli dovranno
vivere fianco a fianco, uno Stato ebraico per il popolo ebraico, e uno
Stato palestinese per il popolo palestinese. Come dire che il diritto
al ritorno dei profughi non può diventare un’arma per negare il diritto
all’esistenza di Israele, il pericolo demografico definitivo.
Abu Mazen e Olmert hanno tenuto discorsi carichi di preoccupazione per
la situazione interna, ma anche della immensa soddisfazione per la
folta presenza araba alla Conferenza. Gli israeliani non conoscono
piacere maggiore di quello di sentirsi bene accolti nella famiglia
mediorientale; e i palestinesi, cui i Paesi arabi ne hanno fatte
parecchie, hanno sentito la loro causa di nuovo in auge, finalmente.
Abu Mazen, anche se ha condannato esplicitamente il terrore e ha
annunciato una nuova aurora per tutti, anche per Gaza, finalmente
libera da Hamas, ha espresso un sincero sogno di pace, ma non ha fatto
nessun passo verso le posizioni israeliane: diritto al ritorno, confini
del 67, occupazione, Gerusalemme Est come capitale… Niente è
cambiato, anche se i toni erano alti e chiara l’invocazione: «E ora non
ci abbandonate».
Olmert, invece, ha scelto un tono da guerriero: ha ricordato gli
attentati, i rifiuti palestinesi, i bambini morti sugli autobus. Poi ha
riconosciuto la sofferenza palestinese e la dignità dell’aspirazione
alla pace, e la sua ansia di normalizzazione e riconoscimento, rendendo
così omaggio al piano saudita per la pace. Ma alla fine è saltato nel
vuoto con la frase più drammatica della giornata: «Io non ho dubbio che
la realtà creatasi nella nostra regione nel 1967 cambierà in modo
significativo. Sarà un processo estremamente difficile per molti di
noi, ma è inevitabile. Lo so. Molti nel mio popolo lo sanno. Siamo
pronti». Vuol dire: via dai territori, sia quel che sia, almeno in gran
parte.
E dunque, se guardiamo da questo punto agli eventi di domani, essi sono
già cominciati: proteste e forse una crisi di governo attendono Olmert.
Più ancora, la jihad islamica affila le armi, gli avvertimenti di
attentati si moltiplicano. Il conflitto israelo-palestinese si placherà
con la sconfitta dell’ideologia che lo nutre.
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