Leggi un discorso di Revelli sulla campagna italiana in Russia

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Leggi un discorso di Revelli sulla campagna italiana in Russia

28 Giugno 2009

Il 29 ottobre 1999, l’Università di Torino ha conferito a Nuto Revelli la Laurea honoris causa in Scienze dell’educazione “per l’attività di narratore e di saggista, ma soprattutto per le sue capacità pedagogiche che gli permisero di far conoscere la storia della guerra e del dopoguerra nel Sud del Piemonte”. Quello che segue è il discorso tenuto da Revelli in occasione della cerimonia.

Sull’Ignoranza

La laurea Honoris causa che questa prestigiosa Università, e in particolare la Facoltà di Scienze della Formazione mi hanno conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore della ricerca, di cultore delle "fonti orali". Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, spetta ai protagonisti del mio "mondo dei vinti". È in questo senso che ho deciso di dedicare il mio intervento alla mia ignoranza e al prezzo per guarirne.

Avevo vent’anni nel luglio del 1939, quando conseguii presso l’Istituto Tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte, era sul punto di esplodere. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un’Accademia militare – quella di Modena – per imparare quel mestiere. Altro che il geometra… Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente venni assegnato al 2° Reggimento alpini, della Divisione "Cuneense", la cui sede era a Cuneo, e che era appena rientrato dall’Albania. Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco albanese. Diventarono subito i miei "maestri". Io dialogavo con loro, io li ascoltavo con grande interesse. Mi intimidivano. Erano disincantati, severi nei giudizi: mai trionfalisti, mai retorici. Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, avevano la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una "licenza agricola".

Nel luglio del 1942, con il 5° Reggimento alpini della Divisione "Tridentina", venni inviato sul fronte russo. Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza di allora, nei giorni che precedettero la partenza per quel fronte di guerra. Appartenevo alla categoria dei cosiddetti "colti" – avevo al mio attivo un titolo di scuola superiore e due anni di Accademia – ma a malapena sapevo dove fosse collocata geograficamente l’Unione Sovietica. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressori. I tedeschi vincevano anche per me, e li consideravo degli alleati preziosi. Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? Per la "Patria". Ma quale "Patria"? Quella del fascismo, o quella della monarchia, dei Savoia? Quando si intuisce di essere ignoranti si compie già il primo passo per uscire dal buio. Decisi di tenere un diario. Mi ripromettevo di elencare i momenti più significativi dell’esperienza che stavo per vivere, di registrare i miei stati d’animo, i miei sentimenti più intimi. Volevo imparare, volevo capire.

Durante il viaggio – tra Brest-Litowsky e Minsk, a Stolblzy – intravidi gli ebrei, quelli dei "campi di sterminio", dei quali ignoravo l’esistenza. Erano una sessantina di relitti umani – donne, uomini, bambini – tutti scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla. Sembravano dei fantasmi. Si trascinavano lungo la nostra tradotta implorando un pezzo di pane. Odiai i due tedeschi delle S.S. che li controllavano da lontano con i mitra spianati. E dissi a me stesso: "Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra". Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi, a scegliere, a capire. Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio del 1943 l’inizio della fine, il disastro. Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata, di quell’inferno. Dirò solo che il 20 gennaio – era il terzo giorno della ritirata – nella immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero, mi resi conto che avevo capito tutto. La nostra colonna – trenta o quarantamila uomini allo sbando – sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi! "Ricordare e raccontare", questa la parola d’ordine che mi portai nel cuore da quell’esperienza tristissima.

Nei giorni dell’8 settembre ero a Cuneo, e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e contro i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi – la maggior parte "contadini in divisa" – mandati a morire per niente in quella guerra maledetta. Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà", con dei "maestri" come Livio Bianco e Duccio Galimberti. In quesi venti mesi diventai adulto. Soprattutto Livio mi era vicino. Io lo aiutavo a risolvere i problemi pratici, quelli militari. E lui mi insegnava l’abc della cultura politica, e a dare un senso all’esperienza che stavo vivendo. L’amicizia di Livio era il mio ancoraggio più sicuro. Livio mi era di esempio. Livio mi aiutava a resistere, a non mollare.

Nel 1946 sentii l’obbligo di gridare la mia verità. Pubblicai il mio diario di Russia. L’informazione era vaga, insicura, per non dire inesistente. Le fonti ufficiali tecevano. E le famiglie della provincia di Cuneo che avevano perduto un loro congiunto sul fronte russo – erano circa settemila – continuavano a illudersi che tutti gli "assenti" fossero vivi, prigionieri. Per l’Autorità militare quasi tutti gli "assenti" appartenevano alla vastissima categoria degli scomparsi nel nulla, dei "dispersi": cioè dei non vivi e non morti. Ma a rendere più confusa la situazione contribuivano gli avvoltoi della politica – gli attivisti della destra fascista e della destra democristiana – che falsificavano la storia, che diffondevano degli slogan come questo: "Sono tutti vivi i dispersi. Ritorneranno solo quando i comunisti lo vorranno".

Erano gli anni delle rivincite, delle ferite più che mai aperte, delle lacerazioni destinate a protrarsi nel tempo. Il dramma dei "dispersi" è purtroppo ancora attuale oggi. Ancora oggi, tra i famigliari dei "dispersi", c’è chi spera! Nel 1962, con la Guerra dei poveri, conclusi il mio discorso autobiografico. E decisi di dare una voce agli ex soldati, a chi aveva sempre dovuto subire le scelte degli "altri", ai pochi superstiti della prigionia di Russia. Pubblicai La strada del Davai. Poi, sempre negli anni sessanta, raccolsi le lettere de L’ultimo fronte: le lettere che i caduti ed i "dispersi" avevano inviato alle famiglie dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo. Erano difficilmente raggiungibili quei piccoli "archivi famigliari", custoditi gelosamente dalle madri, dalle spose, dalle sorelle dei caduti e dei "dispersi". Bisognava acquisire quegli epistolari senza procurare nuovi traumi, nuove sofferenze. Occorreva molta umiltà, occorreva molta prudenza nel chiedere. Centinaia di lettere – l’ultima lettera inviata alle famiglie da altrettanti caduti e "dispersi" e pretese a suo tempo dalla Autorità militare – le acquistai da uno straccivendolo di Cuneo, al quale l’Autorità militare le aveva cedute come carta da macero.

Eh l’ignoranza! Eh la retorica patriottarda che mascerava malamente quell’insipienza, quei misfatti. Non poche di quelle lettere le restituii poi alle famiglie perché erano preziose come tanti testamenti. Ma assistevo al grande esodo dalla campagna povera, all’abbandono delle aree depresse della montagna e dell’alta Langa, come risposta all’industrializzazione troppo rapida della pianura. Era un vero e proprio terremoto. Si contavano a migliaia i contadini, i montanari – giovani e meno giovani – che diventavano manovali dell’industria. Un patrimonio di forze valide, di esperienze, di mestieri, destinato a disperdersi. Altro che la "difesa dell’ambiente"; altro che il "governo del territorio"… Con l’esodo indiscriminato, caotico, in non poche aree della nostra collina e della nostra montagna si sfilacciava il tessuto sociale, si estendeva il deserto. Raccolsi le storie di vita de Il mondo dei vinti e de L’anello forte per dare una voce a chi era costretto – ancora una volta – a subire le scelte sbagliate degli altri. Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. I giovani devono conoscere la società in cui vivono. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta.

Materiali e informazioni su Nuto Revelli sono consultabili sul sito della “Fondazione Nuto Revelli Onlus”