Leggi un estratto dell’Atlante americano di Borgese

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Leggi un estratto dell’Atlante americano di Borgese

Leggi un estratto dell’Atlante americano di Borgese

21 Giugno 2009

Lasciata l’Italia di Mussolini, Giuseppe Antonio Borgese giunge in America all’inizio degli anni Trenta. Durante i primi anni del suo soggiorno, lo scrittore invia al “Corriere della Sera” le proprie impressioni, raccolte in seguito nel celebre Atlante Americano. Nell’estratto che riportiamo, Borgese arriva da New York nella “paffuta” Washington, “una piccola capitale quasi appartata”.

Grazioso è per un paese enorme avere una piccola capitale quasi appartata: quella che, senza nemmeno la sensazione di contraddirsi, si vorrebbe chiamare una capitale in provincia. In cima a questa gran corporatura sociale e politica c’è l’amabilità di un sorriso. Grandezza, maestà, sono frequenti in America; rara è la grazia. Questo viaggio in primavera rinfresca e riposa. A Washington si arriva da New York, stazione Pennsylvania, in quattro o cinque ore; in uno di quei treni ai quali già mi abituo, dei quali già non osservo più le note differenziali. Un treno dei paesi nostri, ormai, mi stupirebbe.
Sotto la tettoia scura non sono ammessi che i partenti, senza grappoli di amici e parenti; che qui farebbero ridere tanto il moto è connaturato e quotidiano a questa nazione.

I facchini sono tutti negri, coi berretti rossi; ma, almeno in questa parte del paese, si direbbe che le razze di colore siano sedentarie, e, tranne gli inservienti, viaggino soltanto i bianchi. Quando il treno è in moto, con le sue stoffe verdi, senza merletti, coi suoi legni lustri, si vedono i viaggiatori, sui sedili dei vagoni comuni o sulle poltrone singole delle Pullman, seduti tutti in fila, volgendosi le spalle, tutti quanti nel senso della marcia del treno, che sembrano agevolare: rappresentazione esatta, quasi grafica, dello spirito di un popolo dove ognuno bada a sé camminando a fianco agli altri. Per vedere qualcuno in faccia bisogna andare nella sala fumo o nel ristorante.

Siamo presto in campagna. La luce del pomeriggio è serena, anche se non suscita i dolci rilievi delle nostre contrade, anche se le ombre degli alberi sembrano meno aderenti al suolo. Ma queste sono esagerazioni sensitive. Tra frutteti in fiore e uccelli in volo potremmo credere d’essere in Europa, se non fosse, se non fosse che cosa? Forse il tratto più distintivo è l’assenza del cavallo, questo sfortunatissimo fra gli animali in America: dove giunse ben tardi, importato dagli esploratori europei, e donde sparisce prima che in ogni dove, messo in fuga da venti milioni di automobili. Appunto perciò nell’epoca degli avventurieri e dei cow-boys prese un aspetto favoloso, come se i cavalli fossero nuovi centauri. Raro è anche vedere un contadino; questa terra, tutta a macchina, pare si coltivi da sé.

A Washington, a sera, una prima sorpresa, benché di poco conto: qui, nel Distretto di Colombia o D.C. com’è chiamato il piccolo territorio federale, non vige l’ora estiva. Dobbiamo rimettere l’orologio; siamo indietro di un’ora.

***

Quest’impressione di far marcia indietro è più forte a giorno fatto.  New York angolosa e sublime! Qui tutto, al contrario, è curvo e molle; una città paffuta. Le strade, fra ville e case relativamente basse, fanno ghirigori e andirivieni, sboccano in parti; vanno a mirarsi in stagni; i loro marciapiedi sono piumati in pennacchi di verzura odorosa, ippocastani e simili delizie, che, venendo dalla città bianconera dove il bianco è il grigio-acciaio e il nero è il grigio-bitume, vi fanno sgranar gli occhi e agitar le narici. Infine, il vasto fiume Potomac (questo, dei Pellirosse, antichi sonnolenti signori del paese, resta all’America: i grandi, arcaici nomi, ch’essi diedero in evi immemorabili ai loro grandi fiumi) e i piani boschi dove ancora una settimana prima sfarfallavano candidi centomila ciliegi, dono all’umile America del mite Giappone.

Quelli che non amano la politica e non hanno affari a Washington, ed hanno invece un’automobile, una giovane amica e una vacanza, vengono tutti gli anni a contemplare questa meraviglia, nella capitale del più moderno stato ripetendo le antiche adulazioni alla Primavera. Noi, giunti troppo tardi pel ciliegio, ci contenteremo del dogwood, albero di cui non so, se pure esiste, il nome volgare in lingua nostra. I botanici lo chiamano coruna alba. Il suo fiore, simile nella forma alla rosa di siepe, è bianco come il lino. Fra ghirlanda e ghirlanda, fra fiori e foglie, si vedono in lontananza marmi bianchi.

Pensate alle città di corte del nostro Rinascimento, e, meglio ancora, alle imitazioni che con effetto a volte quasi fanciullesco ne fece la Germania nelle sue residenze di principi e reucci: Karlsruhe, che so io, Darmstadt, Monaco stessa. A loro somiglianza Washington s’illumina di un lusso al tempo stesso ingenuo e convenzionale; in una cornice villereccia, la capitale che i liberi coloni s’innalzarono serba una strana impronta di Settecento e di musica da camera.

Non so se altrove mai l’architettura neoclassica abbia ottenuto effetti più smaglianti. Gran parte ci ha il paesaggio. Già Washington è Sud, che ufficialmente comincia poco più giù; le parole che s’odono per strada hanno cadenze molli in cui l’inglese s’inzucchera; già di qui s’intravedono le linee riposate dalle lunghe colline sotto candidi soli; e s’indovinano le valli dove il fiore del cotone è limpido come le perle al plenilunio. Ciò conviene a frontoni e peristilii, che non s’abbrunano alle nebbie ed al fumo come i marmi di Londra. Ma alcune cose sono belle per se stesse.

***

Questa mia prima corsa a Washington si potrebbe chiamare la vendetta dell’europeo. M’erano in mente i veloci, sobbalzanti autobus di Milano, sui cui sedili un carico di turisti stellati schizza da Brera a Santa Maria delle Grazie, dal Castello Sforzesco alla Ca’ Granda, senza neanche rendersi ben conto se i monumenti magnificati dal conducente col megafono siano a destra o a sinistra della corsa; e poi daccapo alla stazione. Io li ho ripagati della stessa moneta. E la faconda signorina che, guidando la sua macchinetta, m’illustrava luoghi e memorie, lei stessa poche ore dopo non riconobbi nel pomeriggio quando l’incontrai in un salotto con un cappello a tese più larghe.

Gran libertà concede l’America, anche quella della scoperta a caso, del primo acchito, diciamo pure della fresca ignoranza. E il Baedeker degli Stati Uniti da tanti anni non s’è più ristampato. Due viste, più d’ogni altra, si stampano nella memoria. Una è del genere fantastico, brillante: è il ridente palazzo panamericano, dove cose e colori richiamano le repubbliche dei Tropici e del Sud e nel patio frondoso, mentre la fontanella bisbiglia in liquido spagnolo, l’albero del caffè e l’erre dei pappagalli vi portano lontano.

L’altro è nel genere solenne: è il Memorial, o tempio, alla gloria di Lincoln. Dall’alto della scalea le sue colonne si specchiano nella gran vasca a rettangolo, al cui estremo opposto sorge l’alto obelisco in onore di George Washington. Il colonnato è d’ordine dorico, ma sormontato dagli stemmi statali. E l’aula interna è vasta, eroica; le parole fedeli che il salvatore dell’Unione pronunciò nei momenti maggiori della lotta, incise in caratteri enormi, si ripercuotono da parete a parete, in un silenzio pieno d’echi.

Perché dir male di quello che non si sa, e trattar con dileggio tutto quello che han fatto qui? Anche in arte hanno fatto qualcosa: e la statua seduta di Lincoln, in fondo al Memorial – di Daniel Chester French, morto l’anno scorso – è fra le poche cose che valgano nella scultura contemporanea. I panni moderni, senza falsità ed artificio, hanno compostezza antica; ed è pure geniale aver compreso, e così fortemente modellato, il carattere profetico e plebeo di quel viso, che sarebbe stato degno di Michelangelo. Ma poi, come sempre, è difficile dir bene agli Americani delle cose loro; essi hanno sempre qualche cosa da ridire. Ammettono la statua; ma, quanto al tempio, osservano che, con tutta quella sua maestà, non sorge naturalmente dal suolo, e pare che ce l’abbiano portato.

***

La Casa Bianca, dove sta il Presidente, con le sue strutture nobili ma modeste, quasi una villa privata fra giardini, esprime l’idea repubblicana che pone il capo esecutivo al pari con gli altri, o primo fra i suoi pari. Grandeggia invece l’edificio legislativo, il Capitol, o Campidoglio; benché la celebre cupola, sarà effetto dell’aria, paia di materiale leggero, e la sua curva non chiami intorno a sé l’orizzonte.
 

Giuseppe Antonio Borgese, Atlante americano, pp. 117-121, Firenze, Vallecchi 2007
© Vallecchi 2007