Leggi un estratto di “Viaggio in Italia” dedicato a Vicenza
14 Giugno 2009
Nel corso del suo viaggio in Italia (1953-1956), Guido Piovene tocca anche Vicenza e il vicentino. Le pagine che dedica alla sua terra natale sono di particolare fascino: la curiosità del viaggiatore – appagata dalle meraviglie rinascimentali – si intreccia qui col ricordo delle strade di provincia, dove trascorreva le notti “negli anni in cui la solitudine era ancora un piacere”.
È curioso per me arrivare a Vicenza in veste di viaggiatore e diarista. Vi sono nato; vi ho trascorso l’infanzia e parte della gioventù; le devo e le dovrò forse la parte migliore della mia opera. Appena entro nella città, mi riprende la meraviglia. Il Rinascimento italiano, specie quello più tardo, quando l’architettura obbediva soltanto alla fantasia ed al piacere, ha qualche cosa di chimerico. Ma in nessun luogo, credo, come a Vicenza. Non parlo delle case gotiche, che Vicenza ha in comune con le altre città del Veneto. Accenno a Palladio ed ai suoi scolari, al complesso fastoso di archi, di logge, di colonne.
Vicenza non fu sede di principati e signorie; passò da un dominio all’altro, poi si accomodò con Venezia. Qui non vi furono né Medici, né Gonzaga, né Estensi. Potremo scoprire il segreto quando uno storico scrittore, e non solo erudito, saprà darci la storia dell’umanesimo vicentino del Rinascimento. Gli archi e i colonnati sorsero senza nessun altro motivo che la compiacenza estetica, le fantasie lunatiche della cultura, l’orgoglio signorile. In Inghilterra, in America a Charlottesville, dovunque ho trovato i riflessi di questa geniale follia. Scarsa di motivi pratici, e funzionali come dicono oggi, segnò la storia dell’architettura mondiale.
Perciò conoscere Palladio, la Basilica, la Loggia del Capitanio, la Rotonda, il teatro Olimpico, il palazzo Chiericati e gli altri attraverso gli studi è una conoscenza imperfetta. Bisogna vederlo a Vicenza. Una piccola Roma, un’invenzione scenografica, sorge in un angolo del Veneto, in vista dei monti, dalla cultura svaporante in capriccio e dalla vanità patrizia d’un gruppo di signori di media potenza e di scarso peso politico. Sono vanitosi, e Palladio accontentandoli concentra il suo genio sulle facciate e il piano nobile; particolari pratici, come le scale, sono talvolta trascurati o di qualità comune. Il materiale delle costruzioni è modesto. Nasce una città in bianco e nero, con le tinte di un’acquaforte, in un paese dalle luci morbide, rosee, in cui l’aria sembra portare un colore disciolto. L’incanto di Vicenza è nel contrappunto tra la sua esaltazione neoclassica ed il colore veneto, semiorientale, che la compenetra dovunque. Non senza un pizzico di rusticità, come si deve ritrovare in una terra così prossima ai monti e in una società pomposa ma di fondo avaro.
La gente come me, vissuta anche per poco prima del 1914, può ricordare ancora gli ultimi sgorghi di un umore che generò la Vicenza di Andrea Palladio. Perdurava la "vita dei palazzi", con distinzione netta tra l’aristocrazia e la "plebe". Ancora pochi e biasimati quegli imparentamenti con la borghesia ricca, così frequenti in Lombardia. Le famiglie patrizie di questo Veneto chimerico pretendevano nel passato di discendere da personaggi storici o mitologici, Mario per esempio, o Giasone. In queste presunzioni vi era una punta di musica shakespeariana. Quando io la conobbi la "vita dei palazzi" non ospitava più fantasie eroicizzanti ma ne conservava l’eco, e anche la vanità, mescolandola all’avarizia dei proprietari terrieri.
In quelle strane congreghe di signori e servi, che assecondandosi a vicenda s’inoculavano a vicenda le loro piccole pazzie, v’erano deliziosi accenti d’opera buffa. Penso a Fogazzaro, ma anche a Turgheniev, a Gogol. Tolte queste stranezze, Vicenza era già allora conservatrice e clericale, e tale oggi è rimasta. Le cronache ci informano che nel sècolo XVI vi furono a Vicenza infiltrazioni protestanti; gli stessi riformati vedono senza antipatia un santo cittadino, Gaetano da Thiene. Ma, per quanto ricordo, non ne è rimasto nulla. Nell’ultimo dopoguerra, se la notizia è esatta, è stata vietata la costruzione di una piscina pubblica per il timore che apparissero a Vicenza i "due pezzi". Non si può dire che l’antico sia tutto estinto.
Come Bergamo in Italia, e come Charleston in America, Vicenza conserva ancora un nucleo di aristocrazia, ed un fondo di civiltà umanistica nelle usanze, che si riscontra anche nella cucina, la più fine del Veneto. A coloro che accusano la cucina italiana d’essere elementare rispetto alla francese, dirò che il baccalà alla vicentina, di qualità sceltissima, battuto a lungo con un martello di legno, messo a bagno trentasei ore; tagliato a pezzetti, cosparso di formaggio e soffritto di burro, olio, acciuga e cipolle; cotto poi a fuoco lento; condito ancora di prezzemolo, pepe e latte; è un vero piatto alla francese. Vi bolle a fuoco lento una civiltà raffinata. Non dimentico i "torresani", cioè i piccioni di torre, che il fuoco consuma nelle ossa, riducendoli a prelibate e friabili larve.
Tutta la provincia è bella. […] Il mio cuore però resta sui colli Berici, specialmente nel tratto che sovrasta Vicenza. Salgo al santuario della Vergine miracolosa; gli ippocastani, che mi videro migliaia di volte bambino, sono quasi tutti morti. Fino a pochi anni fa era la passeggiata d’obbligo di una popolazione abitudinaria. Mio nonno la compì due volte al giorno dai venti agli ottantacinque anni. Ecco il santuario, simile a un fondale con molta biacca, il campanile che riversa sulla città un suono di campane, rapido, festoso, lieve come sempre nel Veneto, e così diverso da quello grave della Lombardia. La mia parte dei colli si stende tra il santuario e Arcugnano. La strada ne segue il crinale, a sinistra guardando il piano verso Padova che appare nei tramonti come un miraggio, a destra un altro piano più breve che termina con le montagne.
Non so che cosa direbbe uno psicanalista se gli rivelassi che, mobile come sono, e portato a girare il mondo, io sogno questi luoghi quasi ogni notte, e nei momenti d’ansia con dolcezza quasi ossessiva. Questa piccola parte della terra è per me veramente il grembo materno. Trascorrevo le notti su quel pezzo di strada negli anni in cui la solitudine era ancora un piacere. Il mio pensiero era la luna, splendente, rara, come non l’ho più vista dopo; balzavo, volavo con essa; candida quand’era in alto; o verdastra, rossastra, quando tramontava sul piano. Mi pareva allora di avere sotto di me gli spazi eterei, un baratro vorticoso che mi trascinava seco di là dall’orizzonte con quella faccia rilucente. Era un farnetico lunare che mi ritorna come in sogno.
Giungo adesso alla villa dove immaginai le mie Lettere di una novizia. Vi penetro con la scusa di vedere un mio vecchio concittadino. Sparito il bosco che saliva sulla pendice; invece dei chioschetti cinesi e turcheschi tra i pini, un pollaio nel prato calvo. Nel grazioso giardino a terrazza della novizia crescono alla rinfusa i suoi fiori e le erbacce; strappate le ringhiere settecentesche; sradicato il ciliegio che si era abbarbicato tra pietra e pietra al muro di sostegno della terrazza, e riversava dentro le fronde e i fiori. Una piscina ignobile occupa l’orto affacciato sulla pianura, che sembrava volarvi con le verze e i piselli mescolati alle viole del pensiero, alle resede e alle gaggie. Questa zona era sede di vita patriarcale. Contadini e signori si mascheravano all’aperto e si esibivano a vicenda in gare di corsa nel sacco o in mangiate pantagrueliche di uova sode e uccelletti.
Mi guardo attorno; è sempre lo stesso paesaggio-quadro, con le sue tinte più pittoriche che naturali; l’aria è impregnata del profumo dell’oca fragrans. Proprio per questo il contrasto è acerbo. Vi sento sotto una specie di ribellione della natura in abbandono, un incipiente ritorno allo stato selvatico. Una vita, di cui io conobbi gli avanzi, finisce di consumarsi nel tempo e si riconsegna all’eterno; ed io sono forse l’ultimo a renderne testimonianza.
Tratto da Guido Piovene, "Viaggio in Italia", Milano, Mondadori 1957