L’Egitto ci ricorda che Al Qaeda non è stata sconfitta

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L’Egitto ci ricorda che Al Qaeda non è stata sconfitta

03 Gennaio 2011

Il 2010 si è chiuso con un articolo sulla "crisi" di Al Qaeda pubblicato da Wired, a firma di Peter Berger, uno dei pochi giornalisti occidentali ad aver intervistato di persona bin Laden. Il titolo del pezzo è Bin Laden’s Lonely Crusade, la solitaria crociata del “master of terror” in un mondo islamico che sembra aver tradito i suoi ideali di distruzione dell’Occidente e di esportazione del jihadismo su scala mondiale. “Dieci anni dopo che il consigliere della Casa Bianca Richard Clarke scrisse il suo memo per mettere in guardia da Al Qaeda – recita il sommario di Wired – è tempo di fare il punto realisticamente: gli attacchi dell’11 Settembre non hanno ottenuto il risultato sperato da Osama bin Laden, e la lista dei suoi nemici si è accresciuta. Guardare la minaccia da questa prospettiva è la strada migliore per prevalere”.

L’odio verso l’Occidente, insomma, tenderebbe a placarsi. Sempre l’anno scorso, in un autorevole editoriale apparso su Newsweek, Fareed Zakaria annunciava la sconfitta di Al Qaeda grazie a un risveglio collettivo nel mondo islamico. Ma pensare che la "War on Terror" possa concludersi nel breve periodo è un errore, per due motivi: il primo è che si tratta di una “guerra continua”, un conflitto permanente, uno sforzo bellico di grandi dimensioni contro un piccolo nemico che si rafforza nella sua stessa debolezza, assumendo nuove forme e denominazioni. Il secondo motivo è che questa guerra non riguarda tanto l’Occidente ma il mondo islamico stesso.

Non si può negare che negli ultimi dieci anni siano stati fatti importanti passi avanti nella lotta ai paradisi del terrore: oggi non ci sono più stati come l’Emirato islamico dell’Afghanistan che offrivano un riparo ufficiale ai fedeli di Bin Laden. Dopo l’11 Settembre la “Base” è stata divelta dall’Afghanistan e schiacciata in Iraq, e il fatto stesso che l’internazionale jihadista oggi sia costretta a spingersi in altri luoghi del mondo politicamente instabili oltre che geograficamente inaccessibili, scossi da faide religiose e sommovimenti a sfondo nazionalistico – dal Sahara alla Somalia e lo Yemen –, potrebbe essere interpretato come un segnale di debolezza di fronte alla pressione del globocop americano.

Il Wall Street Journal mostra come in Europa, nell’ultimo mese, fra Svezia, Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, siano stati arrestati decine di jihadisti. Gli obiettivi erano i soliti: il giornale danese Jyllands-Posten che ha pubblicato le vignette su Maometto, la Borsa di Londra e l’ambasciata Usa in Gran Bretagna. Una considerazione positiva possiamo permettercela, suggerisce il WSJ: l’intelligence dei Paesi europei, coordinandosi con quella Usa, ha ottenuto buoni risultati, sventando nuovi attacchi sul suolo occidentale. Martellata dai Droni tra Afghanistan e Pakistan, e sotto tiro in Iraq, la dirigenza jihadista non riesce più a garantire un training adeguato ai kamikaze. 

Ma ciò non vuol dire che le diverse “costole” di Al Qaeda abbiano cessato di rappresentare un pericolo per gli islamici stessi o per i cristiani, come ha dimostrato l’attentato contro i copti di Alessandria. Al Qaeda è ancora saldamente presente, a vari livelli, nel mondo arabo e musulmano, sia nei Paesi che si dicono alleati degli Usa, sia in quelli che contrastano apertamente l’Occidente. Come si fa a dire che Bin Laden ha perso la sua crociata quando pochi anni fa l’ex presidente pakistano Musharraf informava il senatore John McCain sulla presenza del “Principe nero” in Pakistan? Come vanno letti gli approvvigionamenti di armi ed esplosivi confezionati dagli iracheni che vivono in Turchia, da spedire nell’inferno di Baghdad? Il poverissimo Yemen è governato da trent’anni da un presidente che non si è mai capito a che gioco gioca con gli americani, mentre da qualche parte nel Paese il chierico al Awlaki continua a istruire i jihadisti al martirio via Internet…

Per non dire dei sauditi e delle petrocrazie del Golfo. Dopo l’11 Settembre, Casa Saud ha cercato di migliorare il suo appeal agli occhi della Casa Bianca e i dispacci della diplomazia americana pubblicati da WikiLeaks riconoscono il ruolo svolto dalla casa regnante per contrastare le sacche di consenso verso Al Qaeda. Questi sforzi non cancellano le lapidarie parole del segretario di stato Hillary Clinton, convinta che il terrore, almeno quello finanziario, passi ancora dal Golfo e dai banchieri della morte tollerati a corte. Finché ad essere sradicato non sarà il network economico che permette ad Al Qaeda, ai Talebani, o a gruppi come Laskar al-Taiba (quelli dell’attacco a Mumbai) di sostenersi, l’impegno militare e gli sforzi diplomatici dell’Occidente saranno vanificati.

L’Iran, infine, che vorrebbe autoaccreditarsi come lo Stato guida dell’Islam, capace di stabilizzare un’area che va da Gaza all’Afghanistan, appare un alleato silenzioso e per questo ancora più prezioso per i jidadisti. In Iran è stato ucciso uno dei figli di Bin Laden, di un altro si sa che viene protetto da Teheran, entrambi dopo il 2001 hanno contribuito alla campagna qaedista per rovesciare la monarchia saudita. Insomma, se è vero che il jihadismo oggi ha maggiori difficoltà a colpire l’Occidente, non dobbiamo dimenticare che quella che stiamo combattendo è innanzitutto una “guerra nell’islam”, fra Paesi del mondo arabo e musulmano, una lotta senza quartiere all’interno di ognuno di essi, e a farne le spese sono tutti coloro che dell’Occidente vengono considerati "amici" o “agenti”. Come i copti di Alessandria d’Egitto o i cristiani in fuga dalla Palestina e dall’Iraq.