Leonarda Cianciulli, uccise tre donne e ne fece saponette e pasticcini
13 Luglio 2010
Tra i cronisti vige una regola: la realtà spesso supera la fantasia. E rivangare la vita e le gesta della Saponificatrice di Correggio, al secolo Leonarda Cianciulli, rispetta in pieno questo assioma.
Le vicende di una madre di famiglia che uccide tre donne, e a seconda dei casi ne fa saponette profumate, o candele, o ingredienti per pasticcini, sono degne di un romanzo di Edgar Allan Poe piuttosto che di un dettagliato resoconto giudiziario.
Questa storia maledetta resiste agli anni, magari sbiadita, ma fa parte di quei grandi romanzi collettivi di questo paese.
Più o meno tutti hanno sentito parlare della Saponificatrice, protagonista di una fiaba "nera" di cui lei stessa è stata narratrice minuziosa, lasciando ai giornalisti il compito di spulciare nel suo ponderoso memoriale di 700 pagine, un immenso "noir" a cui non mancò di dare un titolo dolente e appropriato: "Confessioni di un’anima amareggiata".
Leonarda Cianciulli naque nel 1893 a Montella di Avellino, nel cuore dell’Irpinia, e i suoi guai cominciarono prima ancora che venisse al mondo: sua madre, Emilia Di Nolfi, rimase incinta di lei in seguito a uno stupro, a cui seguirono nozze riparatrici con il bruto (all’epoca si usava così). "Figlia della colpa", non voluta e mai amata da chi la mise al mondo, Leonarda prese il congnome Cianciulli dal secondo marito della madre, che nel frattempo era rimasta vedova ed era decisa a rifarsi una nuova famiglia con il suo nuovo amore, Mariano.
La bambina visse i suoi primi anni come un’estranea tra i fratellasti nati dalle nuove nozze, mamma Emilia non nascose mai il suo ribrezzo per quella creatura, frutto di una violenza. Prima ancora di fiorire nell’adolescenza la Cianciulli tentò due volte di impiccarsi, venne sorpresa a inghottire cocci di vetro e le stecche in legno di un corpetto, e in tutte le occasioni fu picchiata e rimproverata per quei tentativi di suicidio. Un’infanzia terribile, segnata come se non bastasse da incubi notturni e attacchi di epilessia.
Il riscatto Leonarda lo trovò sui banchi di scuola. Desiderosa di essere accettata e benvoluta, rivelò un carattere carismatico, le sue precoci esperienze sessuali con uomini molto più grandi di lei, le fecero persino guadagnare l’ammirazione delle compagne di banco. Una volta finiti gli studi e determinata a lasciarsi alle spalle il patrigno, i fratellastri, e soprattuto la madre, la ragazza trovò un marito, scatenando le ire di quest’ultima, che per la figlia aveva deciso un matrimonio combinato con un cugino (un’altro costume dell’epoca). Il consorte scelto invece da Leonarda, Raffaele Pansardi, era impiegato presso il registro comunale di Montella. Come vedremo in seguito, si rivelò un uomo scialbo, succube della moglie, la quale non esitò a metterlo alla porta senza tanti complimenti. Ma fu grazie a lui che la ragazza potè abbandonare il tetto materno.
Alle nozze la famiglia di lei non si presentò nemmeno. Come augurio la signora Emilia espresse alla figlia la speranza di patire miseria e sofferenza per tutta la vita. Con questa "benedizione" i due sposini non poterono fare altro che trasferirsi in un altro paese dell’Irpina, Lariano. Le parole della madre sembrarono esaudite, assieme alla profezia che un giorno le fece una zingara: "Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno i figli tuoi". Emilia desiderava dei bambini più di ogni altra cosa, voleva donare loro un’esistenza specularmente opposta a quella sofferta da lei. Rimase incinta 13 volte: tre aborti e dieci morti premature. I fantasmi dell’infanzia, messi a tacere così faticosamente, accompagnati dalla maledizione materna, segnarono il primo passo verso la discesa agli inferi della giovane donna.
La Cianciulli si dedicò alla magia, all’occultismo, forse nella speranza di trovare un senso a un destino tanto feroce. Cercò di piegarlo affidandosi a fattucchiere e santone. A questo punto forse è doverosa una digressione.
La biografa di questa storia fu solo Leonarda, ed è impossibile stabilire il confine tra la realtà e l’invenzione, ma questo in fondo poco importa. Agli atti restano, riscontrati anni fa in sede processuale, lo stupro subito dalla madre, i tentativi di suicidio e gli aborti, e il relativo "quadro psichiatrico" dell’assassina, cresciuta nel ribrezzo di chi la mise al mondo. Una concatenazione di eventi non certo fortunati. L’intervento della magia, delle forze sovrannaturali, i sogni premonitori e le streghe che popolarono la sua vita di fatto erano più che reali, perchè senza di essi la saponificatrice non avrebbe potuto guardare in faccia il proprio destino senza soccombere. Sopravvisse invece, a costo di "sacrifici umani". E poi bisogna considerare quel profondo sud nell’Italia all’alba del XX secolo, intriso di tradizioni ancestrali, malocchi, tarantolati e riti pagani. Un’identità profonda e sotterranea, che resistette ai secoli e agli anatemi di Santa Romana Chiesa, magari affidando ai santi proprietà guaritrici più appropriate a divinità pagane che non ai martiri e ai padri della religione cattolica.
Basterebbe rileggere "Sud e magia" dell’antropologo Luciano De Martino per scoprire che nel Salento degli anni ’50, incantamenti, danze rituali e fatture regolavano la vita delle comunità contadine, erano parte fondante della loro cultura.
Leonarda si affidò nel 1920 alle arti magiche di una santona, ed ebbe quattro figli. Giuseppe, l’amatissimo primogenito, poi Bernardo, Biagio e Norma. Nel frattempo la sorte sembrò accanirsi ancora contro la donna: nel 1930 un terremoto scosse l’Irpinia, la sua casa di Lariano fu distrutta. Senza perdersi d’animo si trasferì col marito e i primi tre figli a Correggio, ricco paesino in provincia di Reggio Emilia, dove qualche anno dopo metterà al mondo l’ultimogenita, Norma. All’inizio le cose non furono facili. Il consorte, disoccupato, lasciò alla moglie il compito di portare i soldi a casa. E Leonarda si rimboccò le maniche, mettendosi a vendere abiti usati, poi destreggiandosi come sensale per matrimoni. Infine arrivò anche il risarcimento per il terremoto che le distrusse casa giù al sud. Soldi che le permisero di buttare fuori di casa il consorte senza tanti complimenti. L’uomo, forse anche succube della forte personalità della moglie, aveva smesso da tempo di cercare un lavoro: la sua esistenza oramai serviva solo a riempire i due metri di osteria dove si ubriacava tutti giorni.
A Correggio Leonarda faceva le carte e toglieva malocchi alle donne del posto. Nel frattempo l’Italia era diventata fascista e nonostante fosse una fervente sostenitrice del regime e del Duce, la donna nel 1939 scorse proprio nelle "magnifiche e progressive sorti" dell’Impero una minaccia per il suo primogenito Giuseppe, oramai cresciuto e studente di lettere a Milano: la guerra si faceva sempre più vicina e avrebbe potuto strapparle proprio il figlio più amato. Ricominciarono gli incubi ricorrenti, piccole bare bianche finivano inghiottite nell’oscurità. Fino al sogno rivelatore: "Una notte mi comparve una Madonna, con un Gesù nero in braccio". "Ci vogliono dei sacrifici umani per salvare i tuoi figli, tanti quante sono le creature che hai messo al mondo". Questo avrebbe detto Maria a Leonarda, come raccontò lei stessa ai giudici. Per quanto grottesca, questa rivelazione trasformò la Cianciulli da fattucchiera trapiantata nella ricca provincia emiliana, a unica e insuperata serial killer della storia patria.
Nell’inverno del 1939 cominciò la breve e intensa carriera della saponificatrice. Tra le sue clienti e concittadine le potenziali vittime abbondavano: donne sole, non più giovani, infelici e desiderose di un’esistenza meno grama. A modo suo la Cianciulli le accontentò tutte, facendo loro scorgere un destino meraviglioso dietro l’angolo. Anche se poi dietro quell’angolo trovarono una scure pronta a squartarle e un pentolone d’acqua e soda caustica per farne poltiglia.
La prima a cadere nella trappola si chiamava Faustina Setti, un’ultrasettantenne che alla sua tenera età non si era arresa all’idea di morire zitella. La Cianciulli da anni le faceva le carte, l’anziana voleva sapere cosa le riservava il futuro nelle questioni di cuore. Una preda ideale, insomma. "Cara, ho parlato di te a un mio amico che vive a Pola, un distinto vedovo, molto ricco. Cerca una tenera amica, è molto interessato a conoscerti. Ma devi partire subito e non farne parola con nessuno per non scatenare inutili invidie". Furono più o meno queste le parole che attirarono l’attempata "signorina" verso la trappola. Faustina, i capelli tinti di nero e il volto ricoperto da una maschera di trucco per apparire più giovane, si presentò il giorno della partenza in casa di Leonarda per i saluti di rito. Questa le offrì un caffè. "Ma dovrai aspettare un po’, sui fornelli c’è un pentolone d’acqua bollente, oggi faccio il sapone. Nel frattempo perché non scrivi ai tuoi lontani parenti che stai per unirti al tuo grande amore? La lettera potrai spedirla da Pola". E Faustina, semianalfabeta ed entusiasta come una ragazzina, si consumò gli occhi per mettere nero su bianco tutta la sua felicità.
La Cianciulli si mise alle sue spalle, impugnando una scure. Appena Faustina terminò l’ultima riga, venne raggiunta da un micidiale colpo che le spaccò la testa in due. Il sacrificio era compiuto, ora bisognava sbarazzarsi del corpo. Leonarda lo dissezionò in nove pezzi, con coltelli e seghetti, poi li gettò nel pentolone di acqua bollente e soda caustica, non prima di aver raccolto il sangue della vittima in un catino. Aspettò che questo si coagulasse, poi lo fece seccare in forno e infine lo macinò. Lo mescolò con burro, uova, maragarina, e zucchero e con quell’impasto preparò dei pasticcini, che in seguito offrì ad amiche e clienti. Nel frattempo i resti finiti nel calderone si ridussero a una poltiglia oscura che la Cianciulli gettò in un pozzo nero. Mancava l’atto finale. Chiese proprio al figlio Giuseppe di recarsi in viaggio a Pola e spedire da lì una lettera. Naturalmente quella scritta da Faustina.
Passarono pochi mesi, la saponificatrice onorò il suo patto con le sfere celesti sacrificando Francesca Soavi di 55 anni, maestra d’asilo annoiata, sola e insoddisfatta. Anche a lei donò la speranza e poi la morte. Le disse che un suo amico prete cercava un’insegnante in un collegio femminile a Piacenza. Ricalcò la trama del primo delitto: consigliò alla vittima di mantenere il segreto, di partire subito "per sostenere il colloquio di lavoro, prima che lo facciano altre" e di lasciare una lettera ai pochi parenti che aveva in un altra regione, da spedire una volta giunta a Piacenza. Ma stavolta si impossessò anche di tutti i beni dell’aspirante insegnante: "A Piacenza ti serviranno dei soldi, se mi fai una procura a vendere ti spedirò il ricavato al tuo nuovo indirizzo". Come l’altra voltà mando l’ignaro figlio nella cittadina emiliana per imbucare quella lettera. Gli consegnò anche un grosso pacco chiuso ermeticamente: "Ci sono scarti animali, disfatene in campagna, ma non l’aprire". Il ragazzo gettò tra i campi, senza saperlo, la testa della signora Soavi: nel pentolone non c’entrava.
La terza vittima, Virginia Caccioppo, viveva schiacciata dai ricordi. A 53 anni passava le giornate a rivangare il suo passato di cantante lirica di provincia: i fasti, le prime a teatro, tutto finito. Anche per lei la Cianciulli confezionò un futuro su misura: un ex amante, direttore di un teatro a Firenze, disposto in nome dell’antico amore per la fattucchiera ad assumere la signora Caccioppo. Questa volta la saponificatrice onorò fino in fondo il nome che le avrebbero dato: "Virginia aveva carni bianchissime e tenere, grasse al punto giusto. Aggiunsi alla poltiglia alcune aque di colonia. Ne vennero fuori saponette cremose e profumate che regalai alle amiche" disse in tribunale. Fu l’ultimo delitto: l’ex cantante non riuscì a mantenere il segreto sul futuro che l’attendeva e scrisse una lettera a una cognata, Agostina Fanti, che viveva a Napoli, parlandole anche della Cianciulli.
La parente, non avendo più sue notizie, scoprì che Virginia non raggiunse mai quel teatro fiorentino. Andò da Leonarda, la quale cascò dalle nuvole, infine si rivolse al maresciallo dei carabinieri di Correggio, che non avviò nemmeno le indagini. La Fanti, sempre più sospettosa, rintracciò anche i lontani parenti delle altre due vittime, si fece raccontare dove avrebbero dovuto essere, venne a sapere che erano sparite nel nulla. Poi apprese anche che la Cianciulli si era impossessata dei loro beni e li aveva rivenduti. Fu lei la vera investigatrice di questa storia. Con questi elementi andò dai carabinieri di Reggio Emilia, i quali presero sul serio la faccenda. La Cianciulli sulle prime tenne testa agli inquirenti: "Quelle tre hanno fatto tutto da sole, non so dove siano. Le procure a vendere? Si fidavano di me, dov’è il reato?".
Ma l’anello debole era proprio il figlio a cui aveva sacrificato tre vite pur di sottrarlo alla guerra (e in effetti, complice il caso, il ragazzo non partì mai per il fronte). Giuseppe confessò subito di avere spedito una lettera da Pola e una da Piacenza senza sapere cosa contenessero. Lo incriminarono per concorso in omicidio. Scampato dal conflitto mondiale, ora il primogenito rischiava il carcere. Alla Cianciulli ricomparvero in sogno la Madonna e il suo bambino nero: "Confessa" fu l’unica parola proferita dalla Vergine. La Cianciulli si autoaccusò di tutto, rivelò particolari, orari, dettagli, ma dovettero passare più di cinque anni perché si aprisse il dibattimento.
Nel 1946 la Saponificatrice di Correggio finì alla sbarra. La guerra era finita, il fascismo pure, e l’Italia liberata celebrava il primo dei suoi processi più agghiaccianti legati alla cronaca nera. Non fu casuale: il regime tendeva a occultare i fattacci e gli omicidi, con la precisa intenzione di dipingere un paese normalizzato dove tutto era sotto controllo. Non era raro leggere sui giornali di incidenti sul lavoro che in realtà erano uccisioni, o suicidi presentati come malori in casa. La Cianciulli riusci a far scagionare suo figlio.
Leggenda vuole che per dimostrare di essere in grado di saponificare un cadavere, fu portata all’istituto di medicina legale di Reggio Emilia dove su un tavolo le fecero trovare il cadavere di un vagabondo assieme a tutti gli strumenti da lei utilizzati per far sparire i corpi. Fece altrettanto con i resti di quel povero clochard sotto gli occhi allibiti di giudici e avvocati, in 12 minuti netti. Di questa storia non rimasero che i titoli di coda: Leonarda Cianciulli fu condannata a 30 anni di carcere, tre dei quali da scontare in una struttura psichiatrica.
In galera scrisse le sue memorie. Morì nel 1970 nel manicomio criminale di Pozzuoli per un colpo apoplettico. Aveva 78 anni. Suo figlio venne assolto con formula piena dopo cinque anni di galera preventiva. La saponificatrice si trovò bene tra le altre detenute, non ci fu mai un appunto da parte dell’amministrazione penitenziaria. Socializzò e si specializzò in uno dei suoi hobby preferiti: "Preparava pasticcini e dolci" raccontò una suora che la conobbe a Pozzuoli nei suoi ultmi mesi di vita. "Sembravano buonissimi, ma nessuna delle compagne di cella voleva mangiarne".