Leoni per agnelli. Ben Ali è simile ad Ahmadinejad

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Leoni per agnelli. Ben Ali è simile ad Ahmadinejad

13 Gennaio 2011

Idealmente la globalizzazione avrebbe dovuto procedere su due gambe diffondendo le libertà economiche, quelle civili e i diritti umani su tutto il pianeta. In realtà in molti luoghi del mondo il globalismo ha esportato solo una (mezza) rivoluzione mercatista, mentre gli individui continuavano a vivere in uno stato di paura e sottomissione perenne ai voleri di autocrati e tiranni di turno. Come c’insegna il caso tunisino.

Negli anni scorsi abbiamo assorbito tutta la vaga retorica sulla Tunisia "Paese moderato e democratico" che cresceva ad un tasso di sviluppo del cinque per cento annuo prima che arrivasse la grande crisi, che mentre prosperava sull’industria del turismo e sull’artigianato etnico languiva e ristagnava nei comparti tradizionali dell’economia agricola e di stato, e che pur sembrando capace di attrarre gli investimenti stranieri e di brillare come il più forte dei "leoni" africani ad un certo punto si è risvegliata senza pane e materie prime, con un’altissima disoccupazione giovanile, affogata in un sistema corrotto e da una gestione familistica del potere.

Fino a quando Tunisi ha mostrato di comprimere il fondamentalismo islamico, nessuno fra i cantori del "Grande Medio Oriente" si è posto il problema di uno stato autoritario che dalla sua indipendenza ha conosciuto appena due presidenti, e che da più di vent’anni viene guidato con pugno di ferro in guanto di velluto dall’amico dell’Occidente, Ben Ali, che se piaceva ai francesi e agli italiani ormai non convince più gli Usa – come emerge dai cable di Wikileaks e dalle ultime dichiarazioni del segretario di stato Clinton che ha legittimato la "Rivoluzione dei gelsomini" dei giovani tunisini.

Un nome delicato per una ribellione che va avanti da Natale ed è stata affogata nel sangue: meno prime pagine sui grandi giornali, meno clamore rispetto all’Iran ma qualche dozzina di morti, confermati o meno dalle fonti governative. Giovani laureati e lavoratori che si sono suicidati dandosi alle fiamme o sacrificandosi sui pali dell’alta tensione, quelle orrende foto di quattordicenni o professori universitari massacrati. Un concerto di violenze in cui sono stati risucchiati e licenziati ministri e generali, mentre la folla dei manifestanti cercava protezione dietro quell’esercito a cui era stato ordinato di sparare – ma che non sempre si è dimostrato pronto ad obbedire.

Che bella moderazione, ma che grande democrazia quella di Ben Ali, il padrone dei media che ha strozzato ogni libertà di stampa, aprendo la sua corte solo ai sindacalisti amici del regime e spazzando via le ong e chi si batte per i diritti umani; nelle ultime settimane per frenare la protesta il governo tunisino si è pure infilato nei profili Facebook e Twitter degli oppositori, per stanare musicisti rap e altri libertini.

Accecati dall’esotismo di Hammamet solo oggi scopriamo che in questo ventennio la Tunisia è stata una lugubre prigione, un Paese a libertà di espressione congelata, dove la presenza dei giornalisti stranieri era sgradita e quella dei cronisti locali punita con la galera. Il potere di Ben Ali si è progressivamente rafforzato, la repressione è stata tanto dolce quanto spietata, sicchè adesso non bastano i carri armati a presidiare le istituzioni dalla rabbia e dalla disperazione popolare.

La verità è che l’Occidente ha tollerato per troppo tempo uno stato di polizia mascherato da democrazia. Con i regimi liberticidi del mondo musulmano non si possono fare figli e figliastri – sono tutti uguali, tutti idealmente rovesciabili. Dieci anni fa gli assistenti e i consiglieri di George W. Bush proponevano di spezzare in due il regno saudita ancor prima di invadere e liberare l’Iraq, avendo capito che era dalle torri del petrolio wahhabita che bisognava "estirpare il male". Poi anche in casa neocon a prevalere è stato un maggiore realismo, forse ispirandosi al vecchio modello della Kirkpatrick: val bene un Ben Ali come poteva servire un Pinochet.

Adesso è arrivato il momento di rendersi conto che il compromesso con i regimi autoritari del nordafrica può funzionare al massimo per preservare gli interessi economici  e la sicurezza dell’Occidente – per dare l’impressione di una democrazia al sole – ma non contribuisce certo a espandere la libertà, se mai spinge i giovani tunisini a trasformarsi in nuovi Jan Palach.

Ci fasciamo tanto la testa per la dittatura di Ahmadinejad, rieletto in elezioni meno farsesche di quelle che hanno tenuto in poltrona un altro giro il padrone tunisino con i suoi famigli. Abbiamo trasformato il presidente dell’Iran nel concentrato esotico di tutti i mali dell’islam, ma gli agnelli come Ben Ali non sembrano molto meglio del lupo sciita. Del "moderato" presidente tunisino ricorderemo solo la quantità di sangue di cui si è lordato le mani prima della fine del suo quarto interminabile mandato.