L’eredità di William Buckley è che non ci sono limiti alla libertà di pensiero

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L’eredità di William Buckley è che non ci sono limiti alla libertà di pensiero

20 Agosto 2009

In momenti di perplessità i cristiani evangelici si chiedono cosa farebbe Gesù Cristo al posto loro. Nell’era di Obama, invece, i conservatori che cercano di rimettersi insieme dopo la sconfitta dovrebbero chiedersi: “Al nostro posto cosa avrebbe fatto William F. Buckley Jr.?”.

Buckley è morto nel 2008 dopo una carriera di più di 60 anni come intellettuale e personalità pubblica. La non convenzionale e iperarticolata difesa delle sue idee – attraverso i suoi libri, dalle colonne dei giornali e in televisione – gli ha fatto conquistare la celebrità. Allo stesso tempo, ha approfittato della sua fama per diffondere la propria visione del mondo.

Buckley ha combattuto vittoriosamente molte battaglie – per esempio, aiutò a istaurare quel clima favorevole nell’opinione pubblica che permise l’elezione di Ronald Regan a presidente degli Stati Uniti – ed è stato testimone di grandi sconfitte, dalla caduta del Vietnam del Sud ai travagli di George W. Bush. Ho scritto per lui e gli ho lavorato accanto per quasi 40 anni, e credo che ora i conservatori dovrebbero prenderlo come punto di riferimento, non come mezzo per ottenere la salvazione, ma per avere in mente un po’ di chiarezza e per rafforzare il proprio carattere.

La lezione più importante della sua carriera è che ci sono limiti alla collocazione politica. Buckley divenne famoso nei primi anni ’50, dopo due decenni di dominio dei liberal democratici, quando al New Deal di Franklin Delano Roosevelt seguì il “Fair Deal” di Harry Truman. Quando finalmente i Repubblicani riconquistarono il Congresso e la Casa Bianca nel 1952, il loro presidente era un uomo nuovo dalle vecchie misure. Nonostante il suo istinto conservatore, Dwight Eisenhower non era propenso ad accendere nuove battaglie ideologiche. Aldilà della politica, il poeta Peter Viereck reclamava la nascita di un “Nuovo Conservatorismo” che si occupasse di gestire il cambiamento con eleganza, riconoscendo come leader naturali alcuni liberal democratici, per esempio Adlai Stevenson. La Germania, il Giappone e (a quanto pareva) la Depressione era stata vinta da una serie di "sforzi collettivi". Il mondo ormai viveva in una nuova era, e i conservatori dovevano riconoscere questo fatto.

Buckley non voleva niente di tutto ciò. Lui ambiva a un conservatorismo che significasse capitalismo e libertà. La Guerra Fredda richiedeva un’altra grande mobilitazione che Buckley sostenne con tutto il cuore, ma ciò non gli avrebbe fatto perdere di vista i suoi obiettivi individualistici. Nel 1955, quanto fondò la National Review, il giornale d’opinione fatto apposta per esporre il tipo di conservatorismo che aveva in mente, dichiarò che il suo obiettivo era quello di rimanere traversale alla storia. Gridando “Basta!”, egli sperava che qualcuno lo ascoltasse. Per molti anni il liberalismo era stato in ascesa, ma ciò non significava che sarebbe stato così per sempre.

Lo strumento politico del movimento conservatore del tardo XX secolo era il Partito Repubblicano. Buckley riconosceva questo fatto, ma non era mai stato un uomo leale al partito, un’altra lezione per i conservatori di oggi. In pratica, era sposato con il GOP ma non si aspettava che il partito rimanesse fedele alle sue idee e gli dava contro quando si deviava. Le normative elettorali di New York, dove ha lavorato, permettevano ai politici di correre su più fronti, cosa che incoraggiava la proliferazione di partiti terzi. Buckley sostenne il Partito Conservatore, un gruppo di pressione di destra fin dalla sua fondazione, e si presentò come candidato a sindaco della città di New York nel 1965, sperando di sconfiggere il borioso candidato repubblicano John Lindsay. Non ce la fece.

In Connecticut, il suo stato di origine, nel 1988 Buckley sarebbe andato ancora più lontano con la sua ‘slealtà’ al partito sostenendo Joseph Lieberman, candidato liberal-democratico, contro il candidato in carica, il liberal-repubblicano Lowell Weicker. Questa volta vinse. Il partito dovrebbe sostenere il movimento conservatore quanto più possibile, non andarci contro.

Nonostante la cosa lo irritasse, Buckley sapeva che i consigli per perfezionarsi in questo mondo valgono poco. Il giornalista Whittaker Chambers – una spia dell’ex partito comunista – era uno dei colleghi che Buckley ammirava di più. “Vivere significa manovrare”, gli disse una volta Chambers, una frase che Buckley spesso citava. Per un movimento politico era importante stabilire dei paradigmi – lui lo definiva “mantenere le pastiglie” – ma ad un certo punto uno doveva prendere delle decisioni.

Nonostante Buckley pensasse che era possibile cambiare il clima dell’opinione pubblica, sapeva bene che era altrettanto futile cercare di cambiare certi fatti relativi alla natura umana. Molte istituzioni crescono con lentezza e non possono essere create o soppiantate facilmente. Buckley era un tradizionalista cattolico, insoddisfatto dalle masse e dalla diplomazia pacifista del Vaticano, ma è sempre stato contrario agli schematismi che tiranneggiano la Chiesa da destra. Malgrado la sua relazione turbolenta con il partito repubblicano, non ha mai pensato di cercare di rimpiazzarlo con un’altro partito nazionale. Nel 1968 la National Review si schierò contro George Wallace e considerò che il miglior colpo di Ronald Reagan – nel 1976 quando non ce la fece, e nel 1980 quando ebbe successo – era stato quello di lavorare con il GOP.

Un’altra lezione che ci ha lasciato Buckey è che bisogna pensare a se stessi. Nessun altro è stato più rispettoso nei confronti della sensatezza dei suoi maestri. Adorava quel passaggio di Edmund Burke sui “grandi principi del governo… che sono stati capiti molto prima che nascessimo” e che continueranno ad essere compresi “dopo che la tomba avrà accumulato la sua muffa sulla nostra presunzione, e il silenzio del sepolcro avrà imposto la sua legge sulla nostra irrispettosa loquacità”. Ma Buckley cercava sempre di applicare quei grandi principi ai problemi di tutti i giorni e, quando lo portavano verso nuove direzioni, sapeva essere davvero molto irriverente.

Il problema della tossicodipendenza, per esempio, lo preoccupava tanto quanto la sua candidatura a sindaco e, per anni, continuò a pensarci. Nel 1972, sul National Review pubblicò un articolo di Richard Cowan – che più tardi sarebbe diventato direttore dell’Organizzazione Nazionale per la Riforma delle Norme sulla Marijuana – che sosteneva la decriminalizzazione della marijuana. Nel 1996, nella rivista editò un simposio che, schiettamente, finiva così: “La lotta contro le droghe è persa”. Grazie a questa affermazione, divenne il prediletto dei liberal e dei fumatori d’erba. Ma lui se ne infischiava: aveva deciso che le leggi sulle droghe erano capricciose e inapplicabili, quindi dovevano essere modificate. Questa era  la posizione propria dei conservatori, e l’avrebbe sostenuta nonostante fosse rimasto praticamente da solo.

Nel tempo, suggerì anche altre cose selvagge. Aveva deciso che Barry Goldwater doveva vincere le elezioni del 1964 se intercettava l’ex presidente Eisenhower, che lo aveva sostenuto nella candidatura, un’idea che era una pazzia e probabilmente incostituzionale. Nei primi anni della sua carriera aveva giustificato gli ostacoli al suffragio della popolazione di colore nel Sud (“La popolazione bianca – scriveva nel 1959 – ha il diritto… di prevalere politicamente perché i leader della civiltà americana sono bianchi”).

Buckley finì la sua carriera disperato dalla Guerra in Iraq e, già nel 2005, concludeva che gli americani dovevano ritirarsi (“Dati i limiti della nostra volontà e della forza che abbiamo, la nostra parte del lavoro è stata già fatta nella misura in cui poteva essere fatta”). Egli cambiò idea su entrambe le questioni, abbracciando la storiografia sui diritti civili dello scienziato politico Harry V. Jaffa e sostenendo il surge in Iraq quando iniziò nel 2007. Sbagliarsi è il rischio che devi assumerti quando pensi e agisci. Gli unici che non si sbagliano mai sono gli eremiti, posto che il ritiro dall’arena è in sé stesso uno sbaglio.

Per Buckley, la passività non è mai stata un’opzione. Era un attivista, ma anche un uomo. La sua ultima lezione – così tanto importante quanto qualsiasi delle altre – è stata quella di essersi preso il tempo per spassarsela alla grande e onorare il suo creatore. Il fatto che ci sia sempre più vita che politica, è una delle intuizioni dei conservatori, persino delle figure politiche. Nel pretendere da se stesso più di quanto uno riesce a sopportare, il vero ideologo diventa meno che umano.

Di conseguenza, Bill Buckey praticava la vela, sciava, suonava il clavicembalo e andava a messa, preferibilmente in latino se c’era la messa tradizionale. E’ difficile affrontare la vita, ma solo i più duri sanno quando bisogna prendersi una pausa.

Tratto dal Wall Street Journal

Traduzione di Fabrizia B. Maggi