
L’eresia di Adrian Vermeule: costituzione e comunitá

21 Aprile 2020
Oggi parte una nuova rubrica sull’Occidentale: “Comunità e Società” a cura di Francesco Severa.
Non è certo un’epoca beata quella che ha un dannato bisogno di eretici. Fosse anche solo di una piccola masnada di uomini con il coraggio di pensare altrimenti dalla mentalità di questo secolo. Eppure va sempre tenuto presente che ogni eretico che si rispetti difficilmente accetterebbe per sé la definizione dell’infedele. Se ci si riflette, il vero eterodosso è solo colui che al fondo si ritiene ortodosso a sé stesso. Allora forse più che di ribelli, ciò di cui abbiamo veramente bisogno è di uomini con visioni alternative ed organiche, a prescindere dal fatto che possiamo trovarci in accordo o in disaccordo con loro; uomini capaci di offrire modelli nuovi, che possano dinamitare ciò che è divenuto inutile in questo nostro presente.
Ecco, a questa categoria di dinamitardi appartiene di certo Adrian Vermeule, un professore di diritto costituzionale alla prestigiosa Harvard Law School, che è riuscito a scatenare un vespaio di polemiche nel mondo accademico, non solo americano ma anche europeo, con un breve saggio apparso lo scorso 31 marzo sulla prestigiosa rivista “The Atlantic”.
Si ragiona in quel testo di ermeneutica costituzionale, tema che negli Stati Uniti viene sempre esaminato in una peculiare ma genuina prospettiva all’indietro. È dai fini dell’interpretazione che si risale agli strumenti, per il semplice ma inoppugnabile fatto che l’interpretazione giuridica è sempre un irrinunciabile atto politico, nell’accezione più nobile che può essere data a questo termine. E questo ancor più quando si ha a che fare con la Costituzione. Il testo della Carta fondamentale infatti, anche in una forma breve come quella statunitense, costruisce sempre un sistema di principi che animano l’ordinamento. A dar certezza e fondatezza a questo spirito deve concorrere una continua attività di adeguamento, spettante ai giudici certo nelle loro gerarchie come anche sotto l’impulso e la guida di un Tribunale costituzionale, come avviene in Italia. E se questa azione di adeguamento interpretativo non può che essere politica, in due modi se ne può pensare una deontologia: interrogarsi sulla legittimazione politica degli organi che di quella interpretazione si occupano (approccio più utile in Italia), oppure tentare di definire le stringenti finalità e gli obiettivi della stessa, così da convalidarne a posteriori i corrispondenti strumenti (così oltreoceano).
Ora, ci dice Vermeule, si può interpretare una Costituzione in funzione della massimizzazione della libertà individuale, mutuando dal testo (oltre la lettera del testo) principi e diritti che possano dinamicamente adattarsi all’evoluzione ed al cambiamento della società; tanto da far corrispondere tale libertà individuale, da salvaguardare rispetto al potere dell’autorità, allo spazio singolare e personalissimo di realizzazione del singolo. Questo approccio evidentemente comporta un’espansione senza freni dell’autonomia individuale, che finisce per essere un fattore disgregante della società perché non inteso a rafforzare i legami comunitari, ma a privilegiare lo sviluppo del singolo.
In opposizione a questa declinazione il nostro autore ci descrive l’affermazione negli Stati Uniti della “scuola originalista”. L’originalismo si pone l’obiettivo di contenere il modello espansivo della libertà individuale, limitandosi ad una interpretazione della Costituzione che faccia riferimento al significato che ad essa volevano dare i Padri fondatori che la scrissero. Antonin Scalia, justice alla Corte Suprema, maggior rappresentante di questo movimento, di cui lo stesso Vermeule fu stretto collaboratore, usava spesso l’immagine della empty bottle: la Costituzione non è una bottiglia vuota da poter riempire a nostro piacimento, bensì un testo “morto”, da cui non è possibile dedurre principi e diritti differenti rispetto a quelli che per essa erano stati voluti. Un modello di resistenza dunque, che oggi è di certo maggioritario nel mondo giuridico statunitense. A questa scuola infatti appartengono la maggior parte dei giuristi che si richiamano al mondo conservatore e tra i quali vengono scelti dall’attuale amministrazione repubblicana di Donald Trump i nuovi giudici federali di nomina governativa.
Eppure Vermeule fa un passo oltre. Entrambi questi modelli infatti giocano sulla medesima logica progressiva della libertà, l’uno in favore, l’altro in attrito. L’originalismo ha esaurito il suo compito di resistenza ed è evidentemente insufficiente ove si voglia ridefinire un approccio nuovo ed alternativo al diritto e all’interpretazione costituzionale. È essenziale secondo Vermeule superare definitivamente la dialettica tra libertà e autorità. Egli sostiene la necessità di sviluppare un “moral constitutionalism”, cioè un modello ermeneutico che permetta di leggere, nelle ambiguità della Costituzione scritta, dei principi morali sostanziali e oggettivi di cui l’autorità si faccia promotrice. Regole, gerarchia, solidarietà tra gruppi e sussidiarietà sono gli elementi interpretativi desumibili dalla Carta fondamentale, intesi come principi che devono ispirare l’azione dell’autorità, anzi di più, di cui essa si deve fare garante. In questo senso, la misura del potere pubblico non si costruisce più nel rapporto con la libertà del singolo, che non può essere prevaricata, ma in funzione di quegli stessi scopi di moralità da raggiungere. Non più un potere limitato, ma adeguato, poiché “protect liberty is not an end in itself”.
Vermeule insomma rimodella al fondo il sistema stesso del costituzionalismo moderno, considerando i diritti e le libertà non come trincee per la difesa dagli attacchi del più gelido tra i mostri, ma come strumenti di realizzazione, prima che personale, comunitaria: l’edificazione di un ordine, che con brutta parole egli definisce morale, che non è in continua progressione e accrescimento in funzione della realizzazione singolare, ma è elemento dato e collettivo, da difendere, da garantire. Questa costruzione, non certo inedita, demolisce brutalmente le colonne portanti del moderno modo di concepire il rapporto tra il potere ed i singoli; esalta la Costituzione come forza ordinante, ma a monte, come garante di una costruzione comunitaria, e non a valle, presidio delle libertà dell’individuo. E queste riflessioni, condivisibili o meno che siano, ci interpellano proprio nel momento in cui la crisi sanitaria che stiamo vivendo sembra aver messo a nudo tutti i limiti di un modello di convivenza tutto costruito sull’inibizione di qualsiasi istanza unitaria.
La moderna Gesellschaft si edifica su rapporti e legami artificiali, fondati sulle necessità e plasmati dalle contingenze. La giustizia, forza ordinante della società (ubi societas, ibi ius), è un’aperta dialettica tra libertà individuale e autorità, tale per cui ove la prima si espande, la seconda indietreggia. E quella libertà è una miniera profonda, da cui si possono tirare fuori i preziosi elementi che costruiscono lo spazio inviolabile della nostra realizzazione, che è incontenibile, che è progressiva e inarrestabile. Incontenibile perché essa è un limite invalicabile per il potere sovrano, fosse anche esso riconosciuto come democratico. Progressiva e inarrestabile, perché suscettibile di una continua espansione, fin dove voglia arrivare l’auto-realizzazione del singolo. Questa ingegnosa e ragionevole sovrastruttura si inceppa però quando incontra l’emergenza. I legami giuridici e sociali, gli stretti vincoli costruiti con tenacia, sembrano tesi oltremisura, pronti a rompersi, a frantumarsi. L’autorità si riespande, prova ad affermare la sua forza legale, detta regole, impone divieti, costringe le libertà in maniera consistente, per non dire soffocante. E nonostante i patti siano venuti meno, i confini del potere siano stati sorpassati, tutto si tiene. Milioni di persone sacrificano la propria libertà senza che venga schierato un solo soldato in strada. E non certo per la paura di una multa. Sentono invece di riconoscere quel potere come legittimo ed adeguato. E qui siamo arrivati al fondo, perché dovendo dar retta a Popper dovremmo dire che la democrazia è questione di limitazione al potere; beh la democrazia è piuttosto sentimento. La comunanza di destino che si realizza nella Gemeinschaft.
È questa solida struttura a tenere in piedi il resto. Essa è fatta di legami ben più forti e stringenti di quelli costruiti dalle contingenze, perché fondati su immemori tradizioni e su un comune senso della giustizia, che rende tutti capaci di distinguere secondo i medesimi canoni il bene dal male. Questo nocciolo duro, che a noi diversi dà qualcosa di solido da condividere, è un principio ordinante che l’autorità deve difendere. E cosa dovrebbe essere la giustizia se non la difesa assoluta di questo principio di coesione?