L’esito di una vita dipende dall’uso provvido (o meno) delle proprie libertà

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L’esito di una vita dipende dall’uso provvido (o meno) delle proprie libertà

06 Settembre 2011

La si condivida o meno, non c’è etica liberale senza individualismo. Norberto Bobbio distingueva tra individualismo metodologico — la società si comprende partendo dall’agire degli individui e non dalla natura e dalle finalità dei gruppi; individualismo assiologico — ‘è desiderabile che ciò che conti sia l’individuo e non il gruppo’— e individualismo ontologico — al centro della riflessione politica e del ‘contratto sociale’ stanno gli individui che hanno più ‘realtà’ delle loro determinazioni storiche e culturali. Il liberalismo duro e puro li ricomprende tutti e tre. C’è in questo stile di pensiero un’ombra di ‘spietatezza’ che è il contrario di quella filosofia buonista che, dai cattolici ai radicali passando per i post di tutte le ideologie progressiste, è così diffusa nel nostro paese. Mi riferisco alla massima ‘presa sul serio’: "quisque faber fortunae suae", ognuno è l’artefice del suo destino, sicché successi e fallimenti non vanno addebitati al destino cinico e baro o ai condizionamenti sociali e ambientali ma unicamente a un buon o a un cattivo uso della libertà.

Si tratta di un’etica che non intende interferire nelle scelte e nei valori degli individui finché i loro comportamenti non sono lesivi degli altri. Ci si vuole ingurgitare di cibo fino a farsi venire il diabete? Si eccede col fumo fino a farsi venire il cancro ai polmoni? Ognuno ha il diritto di vivere e bruciare la sua esistenza come vuole. In una società siffatta— che democratici, fascisti, comunisti, cattolici definirebbero "la società degli egoisti", tutti dovrebbero avere la libertà di imitare le incoscienti cicale, sperperando tutto quel che si guadagna di volta in volta, o di seguire le sagge formiche, impiegando una parte, anche cospicua, del proprio reddito per assicurarsi, un domani, pensioni e cure mediche. Lo Stato non dovrebbe metterci il becco ma solo limitarsi a far rispettare l’ordine, le leggi, i contratti. E’ superfluo rilevare che, se non altro al fine di evitare gli inconvenienti e i rancori degli improvvidi, portati a razionalizzare il proprio fallimento, addossandone la colpa agli altri, lo Stato moderno ha deciso di assumersi lui non pochi compiti di previdenza e assistenza sociale e  che, anche a prescindere da tale impegno, un qualche soccorso al prossimo che non ce l’ha fatta (e non sempre, va detto, per sua colpa) è qualcosa che trova d’accordo anche i più fervidi antibuonisti (categoria alla quale mi ascrivo).

Il problema, però, è un altro e rinvia a un secondo principio che pure dovrebbe far parte dell’architrave liberale: lo potremmo definire, genericamente, "responsabilità civica". In soldoni, esso può così venire enunciato: ogni volta che individui, stati, istituzioni, associazioni varie mi chiedono di far qualcosa per il mio prossimo, rivendico sia il diritto di sapere l’uso che verrà fatto del mio denaro, sia un qualche controllo del modo di vita del beneficiario. Se chiedo un prestito a una banca, questa esige una documentazione sulla mia solvibilità e precise garanzie relative ai miei beni al sole. Se invio cibi e medicinali agli africani che muoiono di fame o d’incuria, dovrei esigere, a mia volta, che gli aiuti giungano a destinazione e non alimentino il mercato nero di politici corrotti. Il creditore, insomma, non è un santo, come il vescovo Myriel dei ‘Miserabili’ che lascia Jean Valjean in possesso dei suoi preziosi candelabri senza sapere ‘da dove vien e dove va’. Ogni esborso, brutalmente, crea una sorta di ‘diritto d’interferenza’, proprio perché il denaro, per un liberale, fors’anche ‘olet’ ma rimane una ‘cosa seria’.

Persino un figlio che vuole un grosso prestito dal padre è tenuto a illustrargli il motivo della richiesta, la ragionevolezza dell’investimento al quale pensa e le ragioni per le quali il rimborso è sicuro. Oggi lo stato sociale, con i soldi di tutti, si assume l’onere di non lasciare nessuno morire di polmonite o di overdose sotto i ponti. Sarebbe assurdo se in base al principio di responsabilità civica, per ricoverare un drogato in limine mortis  gli chiedesse un certificato di buona condotta, ma, alla luce dei costi crescenti destinati agli ‘improvvidi’, sarebbe altrettanto strano se non si riservasse la facoltà di informare i cittadini sui pericoli ai quali si espongono consumando certe bevande e indulgendo al tabacco. Qui lo stato etico non c’entra: non si vuole che i cittadini siano tutti belli e sani (magari, per venir mandati poi al fronte) ma si vuol limitare il numero di indigenti e di malati proprio perché questi ultimi gravano sugli altri, accorti e morigerati. In una società liberal-individualista, se vuoi, rovinati pure la vita –"avanti, ahò, chi more, more"– ma in una società più democratica e generosa i tuoi eccessi incidono sul mio tenore di vita: non è in nome della Razza, o della Classe o della Umma che cerco di limitare il danno ma in nome del mio interesse bene inteso, in un’ottica che più antibuonista e anti-ideologica non si può.

Neppure può dirsi ‘stato etico’ lo stato che tassa cibi e bevande nocive: in una prospettiva liberale classica, infatti, le imposte indirette sono da preferire a quelle dirette e non c’è nulla di iniquo se le imposte che gravano sui generi di prima necessità, in senso lato, siano meno pesanti di quelle che gravano sui generi voluttuari, specie quando fanno male alla salute.