Letta e l’epilogo delle primavere arabe. Un inverno economico
23 Ottobre 2013
Un giovane uomo si siede sulla Avenue Bourguiba nel centro di Tunisi. E’ il 12 marzo del 2013. Grida: "Questa è la Tunisia, questa è la disoccupazione" e si dà fuoco bruciando tra gli sguardi pietrificati della polizia e dei passanti. Il suo nome è Adel Khadri e per sbarcare il lunario vende sigarette di contrabbando. Sono trascorsi tre anni dal 17 dicembre del 2010 quando un altro ventenne, Mohamed Bouazizi, decise di immolarsi per protesta avvolto tra le fiamme, scatenando la "Rivoluzione della dignità", la miccia delle cosiddette "Primavere arabe".
Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha detto che la tragedia di Lampedusa è la "conseguenza incerta, e per certi versi tradita" di quelle Primavere su cui per troppo tempo l’Europa ha chiuso gli occhi. In questi anni sono stati tanti i giovani nordafricani, soprattutto tunisini, che hanno attraversato il Mediterraneo, più di prima, certo, ma in fondo neanche troppi visto quello che accadeva a casa loro. E’ stata una "fuga di massa", secondo Letta. Non è detto che sia finita, anzi potrebbe essere solo l’inizio. Lo spettro di quei corpi bruciati aleggia infatti sulle piazze italiane che protestano e si riempiono; la grande paura è che la rabbia si allarghi anche alla vecchia e stanca Europa meridionale.
In Tunisia i "bonzi" si sono moltiplicati: 2 casi nel 2010, 91 nel 2011, 63 nel 2012, 11 dall’inizio del 2013. La gente continua a darsi fuoco. La BBC racconta con pessimismo che la vita a Sidi Bouzid, la città nel centro della Tunisia dove tutto ebbe inizio con il sacrificio di Bouazizi, è rimasta la stessa. Cresce la frustrazione tra gli under 30 costretti a lasciare scuole e università in cerca di un lavoro che non si trova. Tirano a campare con i banchetti di verdura ma sognano un futuro lontano da una patria che li respinge.
Si dice che la disoccupazione in Tunisia sfiori il 30 per cento. Secondo Svimez, nel Mezzogiorno italiano è al 28. Le previsioni di crescita del Paese nordafricano sono in ribasso, il 3 per cento nel 2014. L’Italia, se andrà bene, crescerà solo dell’uno. Roma non può sforare il patto di stabilità europeo. Tunisi deve rispettare il dettato del Fondo Monetario Internazionale, che lega la seconda tranche di aiuti necessari a evitare il fallimento del Paese a nuove tasse, maggiore deregolamentazione, rigore nei conti pubblici. Per adesso l’unica risposta è un rachitico intervento pubblico.
La Tunisia, sia quella benalista che la nuova, islamica e apparentemente neocentrista, ha fatto per bene i compiti che le erano stati assegnati dall’Fmi: dagli anni Novanta ha modificato il vecchio sistema stato-centrico, aprendo ai mercati esteri, diventando terra di privatizzazioni e delocalizzazioni. Ma le agenzie di rating la puniscono, la povertà si allarga, la disoccupazione giovanile aumenta, un sistema politico corrotto e clientelare ha ingoiato la ricchezza spingendo migliaia di tunisini a cercare fortuna all’estero. In Italia, nel 2011 cinquantamila nostri concittadini hanno lasciato il Paese mentre è ripresa l’emigrazione interna tra Nord e Sud, solo che il Nord non è più quello di una volta.
Non resta che sognare nelle virtù taumaturgiche del turismo e del patrimonio artistico e naturale, anche se è chiaro che non basterà. Prima dovrebbe venire il Mediterraneo del grano, dell’olio e del vino, ma anche l’agricoltura è sottoposta alle grandi speculazioni che scatenarono la rivolta del pane tunisina: nel 2010, negli anni Novanta, negli anni Ottanta. Si scommette sul rialzo o sulla caduta delle materie prime e in tutti e due i casi nelle piazze degli affari globali si passa all’incasso.
A differenza del colpo di stato militare in Egitto o del sanguinoso dopoguerra libico, in Tunisia, dopo la caduta di Ben Alì, la classe dirigente ha cercato di ragionare in modo inclusivo anche se non alieno dalla repressione, basta citare i due gravi omicidi di oppositori interni avvenuti quest’anno. Si è voluto proseguire comunque sulla strada delle riforme economiche. Il "dialogo nazionale" di cui si discute attualmente (il governo a trazione islamica del partito Ennahda ha annunciato di voler cedere il passo a un esecutivo tecnico) dovrebbe portare nel 2014 a una nuova costituzione.
In Italia le "larghe intese" per ora hanno evitato il caos economico-istituzionale, puntando allo stesso obiettivo, riformare le istituzioni e far ripartire la crescita. Ma la crisi sul mercato del lavoro rischia di cancellare qualsiasi risultato e unisce le due sponde del Mediterraneo. E’ il fattore determinante per interpretare gli sviluppi sul piano politico, istituzionale, sociale, economico, dei Paesi dell’Europa Meridionale e del Nord Africa. Il "tradimento" della Primavera araba non riguarda tanto la questione islamica (il timore delle cancellerie internazionali che dietro il moderatismo di Ennahda si nascondano i salafiti di "Ansar al Sharia" con il loro reazionario modello di welfare), ma la mancata comprensione europea di cosa sarebbe successo una volta caduti i regimi illiberali con cui abbiamo patteggiato per anni.
La crisi in Nord Africa ha fatto saltare la pressione migratoria contenuta dai governi securitari, dai progressi economici e dalla privazione di libertà assicurati dai vari Ben Alì, Gheddafi e Mubarak, ingrossando i flussi di uomini, donne e minori, che dall’Africa sub-sahariana puntano ai confini della Ue. L’involuzione delle primavere arabe non è tanto nell’inverno islamico quanto nel più gelido e distruttivo inverno economico.
L’Italia e i Paesi dell’Europa meridionale fino ad ora non hanno sperimentato strumenti e politiche comuni per favorire una normalizzazione sul piano economico-sociale del Maghreb e dell’Egitto. A Bruxelles, nelle "war room" del debito e dell’austerity, non ci si stupisce più di tanto del fatto che, saltato il tappo, il caos abbia avvolto anche l’Europa del Sud, la Grecia insegna. Fino a quando il Mediterraneo rimarrà un luogo ingovernabile, di faglie che si scontrano e presunte "Civiltà" sconvolte dalle stesse maledette contraddizioni materiali di sempre, il sacrificio di Khadri e Bouazizi sarà stato inutile. Le Lampedusa si ripeteranno e ci abitueremo alle torce umane e ai morti annegati, in fondo possiamo abituarci a tutto.