L’eugenetica e Dio
20 Gennaio 2008
È inutile girarci intorno. Se Dio non c’è, non vi è alcuna ragione, ora che è tecnicamente sempre più facile, per non superare le colonne d’Ercole della selezione e della manipolazione eugenetica dell’uomo, che sia il concepito non ancora nato, in qualsiasi stato del suo sviluppo, come pure il già nato. Ho detto «ragione». Poi, naturalmente, i sentimenti, i tabù, le abitudini, anche mentali, cioè il residuo di concezioni «antiche», suscitano remore – invero, più a dichiararla l’eugenetica che a praticarla –, che però sono destinate a perdere progressivamente la loro capacità di arginare questa deriva, perché per loro natura le remore di tal specie sono soggette all’erosione da parte del tempo.
Infatti, se l’uomo è ridotto alla sua identità genetica, se cioè è solo un grumo di cellule – sebbene più specificato e complesso di altri, e dotato di qualche funzione superiore – esito dell’evoluzione «regolata» dal caso, allora perché non scartare gli «errori statistici», i risultati difettosi, i prodotti mal riusciti o incompleti, dallo scarso o nullo «funzionamento»? Questi storpi, mentecatti, inabili o poco abili, deboli e malati che diritto hanno di vivere – e perciò di pesare su famiglie e società – una vita indegna di essere vissuta, in quanto unfit, inadatta? Essi inoltre sono destinati all’infelicità (forse più a quella di chi dovrebbe prendersene cura), difettando della pienezza biologico-vitale, che in tale prospettiva è tutto l’uomo. Eliminarli, e per tempo, se possibile prima ancora che soffrano per la loro condizione, non è semplicemente lecito, è doveroso ed umanitario: questo tipo di selezione è immanente al processo vitale che per ora si è evoluto fino alla specie homo sapiens (domani chissà… Ma se con le biotecnologie, nei laboratori di sperimentazione e ricerca, diamo una mano all’evolu-zione, pianificandola e riducendo il ruolo del caso, allora questo domani potrebbe es-sere più vicino di quanto si pensi…), e perciò la sua pratica, oltre che pietosa, non è altro che una forma di obbedienza all’«ordine» di natura.
Se Dio non c’è.
Ma se Dio c’è, ed è il Creatore dell’uomo – a Sua immagine e somiglianza –, il quale perciò, oltre che cellule, è un’anima immortale, spirituale, razionale e definitivamente incarnata, allora, e solo allora, questa creatura ha un valore trascendente.
Cioè, semplicemente, se l’uomo è creatura di Dio, il suo valore prescinde da ogni accidente che caratterizzi il singolo individuo: dalla sua condizione fisico-biologica a quella mentale; dalla sua origine sociale a quella etnica; dalle sue convinzioni e pratiche religiose a quelle ideologiche. Ha, anzi, è un valore assoluto ed universale: da riconoscere a ognuno, senza nessuna esclusione, dal concepimento alla morte naturale. Se invece l’uomo è solo materia e prodotto casuale dell’evoluzione, è logico che la sua dignità – e la titolarità piena di diritti inalienabili e imprescrittibili fin dal momento del concepimento – dipenda dalla sua riuscita, dal suo essere fit, adatto. Di più: dalla capacità, dalla forza che ha di affermarla.
Solo per l’uomo creato da Dio si possono opporre ragioni contro ogni tipo di selezione eugenetica – che sia a sfondo biologico-genetico, o a sfondo sessuale, razziale, ideologico, o come si preferisca. Altrimenti, di razionale resta poco, e poche, per non dire nulle, sono le possibilità di frenare l’eugenetica, che fra l’altro è anche sensibilmente meno odiosa, essendosi trasferita dal Monte Taigeto all’ambiente asettico, moderno e universalmente stimato dei laboratori, dove tutto avviene senza pianto e senza stridor di denti, e quindi nell’indifferenza se non nell’apprezzamento che si tributa alla scienza.
E non basta. Soltanto in un universo in cui ci sia Dio sullo sfondo – e non un Dio freddo, indifferente e impassibile, bensì un Dio amoroso e misericordioso, ma anche giudice e vendicatore degl’inermi, delle vittime, dei martiri – i forti, i sani, i belli, i riusciti possono avere davvero, insieme con le ragioni, la forza per prendersi cura del resto degli uomini, degli «scarti di produzione», dei «mal riusciti», degl’«infelici». Fino ad istituzionalizzarla questa cura, che così diventa un dovere, un fattore di apprezzamento sociale, una componente del bene comune, una parte del discorso pubblico. Ed infatti, solo quando nella storia si è manifestata, diffusa, e infine socialmente affermata questa weltanschauung – pur con tutte le incertezze, le debolezze e gli alti e i bassi propri della condizione umana – il buon samaritano si è visto erigere in ogni città un monumento: un ospedale, un lazzaretto, un «cottolengo», e non come luogo di separazione ed emarginazione, non come ghetto, ma come rifugio, riparo, luogo di cura, assistenza e conforto.
E ci voleva un Dio per tutto questo, un «Dio dal volto umano». Senza, neppure uno spirito eletto come quello di Platone – che pure aveva cercato di guardare metá tá fysiká, oltre l’apparenza sensibile, ed aveva visto l’anima, la parte immortale dell’uomo, soggetta a giudizio dopo la vita terrena –, neppure lui era rimasto immune dal demone dell’eugenetica, della selezione zootecnica dell’uomo.
Inutile girarci intorno. Senza Dio, tutto è permesso. E non solo quanto alla pratica, cioè quanto all’etica, ma anche teoreticamente, cioè quanto alla verità, che smette di esistere, o almeno di essere conoscibile e comunicabile, e quindi si relativizza: tante verità quanti sono gli uomini, o la verità del più forte, cioè nessuna verità. E tra le verità che si perdono, c’è anche – fondamentale – quella sull’uomo, che può perciò diventare agevolmente materia prima di esperimenti, sociali e/o biologici poco importa, naturalmente al fine di migliorarne la qualità della vita. Questo è stato in parte il nostro ieri, è in parte il nostro oggi, ma sarà soprattutto l’incubo nichilista, scritto sulle pagine patinate delle migliori riviste, del nostro domani.
Né si dica che queste considerazioni sono inopportune di fronte all’esigenza ed al proficuo inizio di un dialogo tra fede e ragione, tra religione e scienza, tra credenti e laici, come se esprimessero una pretesa egemonica dei primi. Nessuno nega che tale dialogo sia non solo auspicabile, ma persino umanamente «adorabile». Esso si rivela, viepiù che si svolge, edificante, e spesso per merito di esponenti di valore della «sana laicità», le cui acute intelligenze sollevano abilmente, impongono all’attenzione ed illustrano con precisione temi e questioni di rilevanza difficile da sopravvalutare. Però è innegabile che il dialogo è tale soltanto se chi s’impegna in esso non mette da parte la propria identità e non occulta né attenua le sue convinzioni – tanto più quanto più le questioni affrontate sono dirimenti –, ma lealmente le propone e le argomenta, né vergognandosene, né essendone avaro verso il prossimo. E poi, la prospettiva evocata è piuttosto teistica che confessionale, è espressione cioè di una teologia naturale o razionale – cui certamente non può limitarsi per un cattolico come chi scrive il discorso su Dio –, ma che altrettanto certamente, poiché non richiede d’essere integrata dalla Rivelazione, può essere fatta propria, ed è comunque comprensibile, anche da chi non crede o non confessa positivamente una religione.
È inutile girarci intorno. Secondo ragione, se Dio non c’è, la selezione e la manipolazione eugenetica sono piuttosto un dovere che un diritto. E comunque sono il nostro futuro. Un motivo di più perché anche chi non crede viva e ragioni almeno veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse.