L’eutanasia degli Atenei italiani
05 Luglio 2012
Ieri l’Italia ha vissuto uno dei momenti più paradossali della sua storia; mentre a Ginevra al CERN si festeggiava una delle scoperte scientifiche più importanti nella storia della Fisica a cui avevano contribuito in maniera determinante oltre 600 scienziati italiani, la scoperta della particella di Dio, da Roma arrivava la notizia che il governo intende ridurre di altri 200 milioni di euro il fondo ordinario di funzionamento delle università.
Ironia della sorte o masochismo italico? Difficile saperlo perché non appena hanno cominciato a scoppiare le prime reazioni del mondo accademico, dagli studenti ai docenti, ai sindacati, è stato un rincorrersi di distinguo, un richiamo a non considerare la notizia come certa e via dicendo finché il Consiglio dei Ministri di questo pomeriggio non prenderà una posizione precisa al riguardo nel contesto più generale della revisione e ottimizzazione della spesa (abbiamo la lingua italiana e non vedo perché dover alimentare gli anglicismi di moda ormai da anni, welfare incluso!).
Ma andiamo con ordine: il problema della formazione, da quella primaria a quella universitaria, è serio e va affrontato di conseguenza con serietà, senza dogmatismi ma anche senza approssimazione e allarmismi.
Da una parte lascia molto perplessi che in un momento nel quale è necessario, direi strategico, che il paese riparta per evitare un tracollo irrecuperabile, il rilancio della formazione universitaria per assicurare quello sviluppo e innovazione, cardini fondamentali per la sopravvivenza di ogni nazione si decida di azzoppare proprio l’Università. Dall’altro è a anche vero che nel corso del tempo, per motivi puramente elettorali e clientelari localistici, è esploso il proliferare di sedi universitarie staccate o nuove facoltà che rispondevano ad esigenze diverse da quelle di una formazione qualificata. Che quindi sia necessaria una seria sforbiciata è indubbio.
Il problema, in ogni caso, sta nella tempistica da adottare e nelle modalità di realizzazione della razionalizzazione del comparto universitario che dovrebbe essere compiuta avendo un quadro di riferimento preciso di cosa si vuole ottenere , dove si vuole arrivare e perché.
E qui va rilevato che il governo ha sbagliato perché ci si è limitati a una affermazione apodittica sull’entità di un taglio che va a sommarsi agli altri pesanti che si sono susseguiti negli anni scorsi; il tutto senza spiegazioni adeguate né risposte alle domande precedenti.
A nulla sono valse le affermazioni del Ministro Profumo che ha cercato di tamponare la falla asserendo la non veridicità delle cifre e della manovra, sconfessato dalle varie gole profonde all’interno del suo Ministero e la stessa sera dal Sottosegretario Polillo nella sua partecipazione alla trasmissione di Vespa.
Nonostante gli slalom verbali di Polillo, quello che emerge da questa scelta del governo dei tecnici è un messaggio inaccettabile che può essere letto come “noi tagliamo la linfa vitale che sostiene il normale funzionamento degli Atenei. Per selezione naturale, resteranno in vita solo i migliori, quelli capaci di attrarre risorse esterne; per gli altri un’eutanasia lenta”.
E’ giusto? E’ il modo migliore di razionalizzare il comparto? Decisamente no perché automaticamente andranno ad essere favoriti settori di immediato interesse economico a discapito di quelli dove la ricerca pura non è di interesse economico immediato o futuro. Un esempio per tutti: come giustificare l’esistenza di settori quali l’archeologia o lo studio delle lingue morte? Vogliamo cancellare secoli di storia e di tradizione accademica importante del nostro Paese?
Da fisico, da membro di una comunità meno colpita, affermo che si sta sbagliando su tutta la linea. Affrontiamo il problema dal verso giusto, coinvolgiamo gli stessi addetti ai lavori, la CRUI, gli Atenei, le Facoltà. Diamoci un obiettivo temporale di sei mesi perché il tempo stringe e vediamo se è possibile sviluppare un esercizio interno alle università che porterebbe, a mio avviso, agli stessi tagli, forse anche maggiori, ma scaturiti da un convincimento collettivo del comparto ed una condivisione cosciente di obiettivi.
Se in sei mesi non si è arrivati a qualcosa di concreto allora si, ben venga la scure del governo: sarà largamente giustificata e nessuno potrà sollevare critiche. Proviamo a comportarci e, magari, a essere un paese serio e civile: c’è persino il rischio che ci si riesca.