Lévi-Strauss voleva classificare il mondo con il suo sereno relativismo
03 Novembre 2009
Claude Lévi-Strauss era una leggenda della cultura francese e dei dipartimenti di antropologia e scienze sociali delle università di tutto il mondo. Il Maestro che, dopo aver trascorso un po’ di tempo in Amazzonia a fianco delle tribù indigene, seppe rielaborare questa esperienza in una saggistica di grande successo. (La "antropologia strutturale" usa le connessioni tra i segni culturali per ricostruire sistemi di relazioni validi universalmente. Avete mai provato a paragonare i miti degli Indiani Americani con la favola di Cenerentola?) Lévi-Strauss è morto nella notte tra sabato e domenica scorsa, centenario.
Nella sua costellazione si sono ritrovati non pochi autori italiani. Qualcuno ha intravisto delle analogie con l’empirismo di Carlo Ginzburg; un’altra rilettura, senz’altro efficace, l’ha offerta l’etno-antropologo Ernesto De Martino. E ancora, quella piattaforma metodologica è servita come base per artisti alla Carlo Levi e Rocco Scotellaro: il Sud boreale, africano e sudamericano, diventava il retroscena mitico del nostro Mezzogiorno. Fino alle ultime e originali prove del più giovane Marco Belpoliti, tanto affascinato dalla flanerie di Lévi-Strauss da farne una "mappa portatile della contemporaneità", fra dinosauri e tramezzini.
Ma nel corso degli anni si sono accumulate molte riserve sul metodo dell’antropologo francese, e sulla presunzione di poter interpretare "lo sguardo del selvaggio" con gli occhiali dello studioso moderno. Dapprima sono stati illuminati i limiti dello strutturalismo che, a furia di procedere per griglie sempre più stringenti, diventa troppo classificatorio e quindi riduzionistico. Poi sono arrivati i postmodernisti, convinti che il flaneur sospeso tra la metropoli e i villaggi indigeni – proprio per il turbamento con cui vive l’incapacità di organizzare in maniera ordinata il flusso di informazioni che lo circondano – rivela l’incapacità del soggetto moderno di saper leggere il caos e il disordine del mondo contemporaneo. E se il filosofo Emmanuel Lévinas ha accusato Lévi-Strauss di "ateismo e indifferentismo assoluto", i postcolonialisti e i nipotini del Professor Said hanno aggiunto l’aggravante dell’etnocentrismo, cioè il tentativo perpetrato dall’Occidente di derubare e spogliare della loro identità le altre civiltà.
Una delle critiche più sensate alla teoria di Lévi-Strauss l’ha avanzata uno psichiatra italiano, Giovanni Jervis, esponente di quella fronda culturale che si batte contro il dogmatismo del pensiero relativista da posizioni laiche. Per capirci, Lévi-Strauss ha sostenuto lungamente che non esiste un Progresso di tipo lineare e qualitativo nella Storia dell’uomo; che tutte le civiltà e le società sono fondate su criteri diversi e che non esistono "civiltà primitive" in quanto questa è una costruzione imposta dalla cultura occidentale. Be’, questa è una posizione evidentemente relativista. Volgarizzata, potrebbe star bene in bocca a quelli che "se le ragazze afghane sono percosse a sangue sulla pubblica piazza non prendiamocela troppo, perché è la loro cultura" (e il relativo corollario "tanto accadeva anche qui da noi fino a poco tempo fa, e accade ancora tra le mura domestiche nell’indifferenza generale").
Jervis, che è scomparso l’estate scorsa, era convinto che questo modo di pensare deriva dalla convizione illuminista e post-illuminista della cultura occidentale per cui non c’è una verità (figuriamoci una verità assoluta o rivelata), ma ce ne sono tante, e che al posto delle verità sono preferibili i punti di vista, tanto che molto spesso questi ultimi prevalgono sulle altre, anche quando a imporli è una minoranza. "Per molto tempo mi sono opposto al relativismo estremo," scriveva Jervis, "del tipo non esistono fatti ma solo interpretazioni dei fatti". Ecco, si può dire che il metodo di Lévi-Strauss è stato una geniale interpretazione dei fatti, il sereno pessimismo di chi pensa che gli esseri umani non hanno particolari privilegi nell’universo o sulla Terra, e che prima o poi si estingueranno senza aver lasciato traccia della loro esistenza: "Il mondo è iniziato senza la razza umana e certamente non finirà con essa", scrisse nel ’55 in Tristi tropici.