L’handicap del paese “intellettuale”
06 Giugno 2008
L’antiliberalismo degli intellettuali italiani. Su queste colonne ho sostenuto che, in Italia, tra le fratture che rendono difficili le strategie adottate per far fronte alle crisi sociali ed economiche, una delle più rilevanti è quella tra ‘paese reale’ e ‘paese intellettuale’. Fin dai primi anni di vita dello stato unitario, gli intellettuali più ascoltati dai cittadini con qualche grado di istruzione sono i letterati, gli artisti, i filosofi. Ossia una sezione della ‘classe dei dotti’ sostanzialmente estranea alla civiltà liberale. Quest’ultima, infatti, trova nel realismo ovvero nel costante riferimento all’esperienza individuale e collettiva la sua stella polare, laddove i ‘chierici’ guardano al futuro e nutrono ambiziosi progetti di rigenerazione spirituale. Quale feeling poteva sentire il vecchio leone maremmano, Giosuè Carducci, per uomini di Stato accorti, come Ruggero Bonghi (‘il pancetta’) o Agostino Depretis (il ‘vinattier di Stradella’)?E come poteva apprezzare l’immaginifico vate abruzzese, Gabriele D’Annunzio, politici ponderati come Giovanni Giolitti o Francesco Saverio Nitti? Le vedettes della letteratura, in genere, non leggevano i classici del pensiero politico—a meno che non si trattasse di anarchici, di socialisti, di nazionalisti, in altre parole, di contestatori, da destra e da sinistra, dell’ordine costituito. L’idea liberale che non debbono essere le leggi a fare i costumi ma i costumi a ‘mettersi in forma’, dando luogo alle leggi, non li sfiorava neppure. La provincia italiana, corrotta da secoli di controriforma cattolica, per tutti doveva venire risanata dalle radici anche se sui modi discordavano giacché taluni riponevano le speranze in un dittatore giacobino, quale avrebbe potuto essere Francesco Crispi; altri in un vasto movimento politico e sociale che coinvolgesse le masse contadine e operaie; altri ancora in un leader carismatico, capace di fondere le ragioni della solidarietà e della giustizia con la gloria e la grandezza della patria. A difendere le libere istituzioni, l’insostituibilità del mercato e i (pur limitati) ‘ludi cartacei’, rimanevano giuristi ed economisti che il pubblico colto, che non fosse interessato all’avvocatura o alla carriera nei vari rami della pubblica amministrazione, leggeva poco o assai distrattamente. Col risultato che ancora oggi l’Italietta umbertina appare il fanalino di coda tra le nazioni europee del secondo Ottocento, ignorando bellamente che i suoi costituzionalisti, i suoi pionieri della sociologia e della scienza politica, i suoi statistici, all’estero, erano stimati e ascoltati assai più che in epoche successive.
Nei secoli che stanno alle nostre spalle, i processi di modernizzazione (e di secolarizzazione) della società italiana sono avanzati nonostante il totale disprezzo che i detentori del potere simbolico ostentavano per il normale gioco parlamentare dominato dalla <consorteria>( la ‘casta’ di allora). Gli addetti alle humanities, così, invece di contribuire, nei momenti drammatici attraversati dalla società civile, a far luce sui fatti, a dare esempi di ‘sangue freddo’ e di capacità di guardare gli eventi dall’alto, mantenendo quella calma che è la conditio sine qua non della decisione razionale, scelsero spesso il ruolo dei profeti di sventure, facendo del loro meglio per far fallire quelle unions sacreés tra partiti rivali richieste, in certi periodi, dalla guerra o dal pericolo di bancarotta dei poteri pubblici.
Il paese reale contro il paese intellettuale. All’accennato handicap culturale ha spesso posto rimedio, nella storia unitaria, lo ‘stellone d’Italia’, al quale si deve se le disprezzate masse, nel 1848 come sessant’anni dopo,si siano ben guardate dal seguire le indicazioni elettorali del <paese intellettuale>.Sarebbe sbagliato, tuttavia, farsi soverchie illusioni. I maitres-à-penser rappresentano settori del <paese reale> minoritari ma non trascurabili: nelle facoltà umanistiche sono la maggioranza e nelle redazioni dei maggiori quotidiani, come nel cinema, nel teatro, nei luoghi in cui si producono arte e ‘cultura’, nonché—novità assoluta nella storia unitaria—negli ambienti legati alla magistratura, possono contare su aree di consenso inespugnabili. Nelle ultime elezioni, è vero, i loro referenti tradizionali a sinistra sono stati eliminati dalla scena politica grazie ai tanti elettori postcomunisti che hanno votato per il PD di Walter Veltroni vedendo nella sua scelta di correre da solo un segno sia pure contraddittorio (v. l’alleanza con Di Pietro!) di voler imboccare la via socialdemocratica, l’unica in grado di allestire, con il possibile logoramento del centro-destra, una credibile alternativa, ‘occidentale’, di governo. Per i clercs è stato uno tsunami soprattutto se si considera che al danno della débacle elettorale si è aggiunto un insopportabile (per loro) mutamento di clima nelle relazioni tra governo e opposizione. La reazione, pertanto, non si è fatta attendere e ha scatenato la guerra senza quartiere che i nemici oggettivi della società aperta—dall’Italia dei valori’ ad Arcobaleno, dalle ‘ultime raffiche’ dell’antifascismo di ‘Repubblica’, ‘MicroMega’, ‘Critica Liberale’ ai centri sociali e alle frange dure del sindacato—stanno muovendo alle <misure urgenti in materia di sicurezza pubblica> varate dal governo. Emblematica, al riguardo, la dichiarazione del nuovo coordinatore di ‘Sinistra democratica’,Claudio Fava, per il quale Berlusconi <sta reintroducendo il concetto di razza nel nostro ordinamento>. <Dio acceca chi vuol perdere>, avverte l’antica saggezza ebraica. Poiché a leggere con attenzione lo schema del decreto legge incriminato non si trova la minima traccia di razzismo, se si hanno a cuore le sorti della democrazia liberale, tale assoluta mancanza di ritegno risveglia antichi, inquietanti, incubi totalitari. Che non vengono esorcizzati, certo, dall’altro lato della medaglia, dal fatto cioè che le geremiadi della sinistra radicale sono melodie vivaldiane per il centro-destra, rappresentando il pegno più sicuro di un’indefinita permanenza al governo: se fosse davvero spregiudicato, Berlusconi dovrebbe finanziare la campagna elettorale di Fava, mantenere, in Rai, in servizio permanente effettivo i vari Michele Santoro, Marco Travaglio, Fabio Fazio, offrirsi come produttore dei film e degli spettacoli di Maurizio Crozza, di Nanni Moretti, di Dario Fo, di Moni Ovadia.
Come avantieri il cosiddetto <anticomunismo viscerale>, che trovò nel giornalista Romolo Mangione la sua espressione più loquacemente aggressiva, portava tante persone, e soprattutto giovani, a guardare con simpatia al PC e all’universo marxista, così oggi il maccartismo antifascista o antirazzista costituisce il miglior alleato del centro-destra. Quando tutti gli episodi di intolleranza etnica e di violenza vengono ascritti al <clima irrespirabile> che, secondo uno degli insigni giuristi di ‘Repubblica’, avrebbe fatto vincere
I ‘temi scottanti’ come strumenti di delegittimazione. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare la capacità del ‘web antagonista’—dei suoi giornalisti, dei suoi giuristi, dei suoi sociologi, dei suoi filosofi—di impadronirsi dei temi scottanti dell’agenda politica per arroventarli e trasformarli in catapulte contro il governo e la sua tiepida opposizione, a partire da quello della sicurezza e del trattamento da riservare ai clandestini che ha attivato anche da noi l’ SOS Racisme. Va riconosciuto che si tratta di terreni di scontro ben scelti in quanto non ci sono facili soluzioni a portata di mano e che quanto propone Maroni, un ministro che in passato ha fornito ampie prove di competenza e di buon senso, l’introduzione del reato di clandestinità, può suscitare qualche motivata perplessità, come testimoniano le ragionevoli riserve di Luca Ricolfi—v. l’articolo Il secchiello e il mare su ‘
Incoraggiamenti dall’estero all’antiberlusconismo teologico. Non può ignorarsi, infine, che a dare una boccata di ossigeno agli sconfitti di aprile, giungono, da diverso tempo, le riserve di taluni vertici delle organizzazioni internazionali, antipatizzanti del centro-destra. Per quanto riguarda l’ordine pubblico, in particolare, figure come Vladimir Spidla, Commissario europeo agli Affari Sociali, Louise Arbour, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Leonard Orban, Commissario europeo al multilinguismo–per non parlare dei responsabili di Amnesty International e last but not least delle gerarchie vaticane—hanno stigmatizzato le supposte intenzioni xenofobe del ministero in carica. In un paese normale, una opposizione responsabile, lungi dal soffiar sul fuoco delle recriminazioni, dovrebbe invitare il governo a farne gran conto e a dichiarare la sua disponibilità a sedersi attorno a un tavolo, assieme ai colleghi europei, per confrontare le rispettive legislazioni in fatto di accoglienza e concordare strategie comuni: a patto, però, che l’Italia non venga posta sul banco degli imputati da nazioni che, in fatto di ‘diritti degli immigrati’ non hanno nulla da insegnarle. Maggioranza e opposizione dovrebbero ricordare agli improvvisati censori comunitari che la direttiva 38 dell’UE sancisce la <libertà di circolazione delle persone> ma autorizza anche le espulsioni in caso di minacce gravi all’ordine, alla salute, alla sicurezza pubblica e porre, congiuntamente, il quesito: se sui principi tutti i partner europei sono d’accordo, come spiegare certi toni irriguardosi, dovuti, nel migliore dei casi, a un’informazione affrettata? Cosa autorizza condanne sommarie che un tempo nessun governo –democratico e non–avrebbe mandato giù? All’estero si hanno dubbi sull’accertamento dei fatti? Sulla reale professionalità degli organi dello Stato italiano incaricati di accertarli, a cominciare dal capo della polizia? E come potrebbe rimediarsi a tale sfiducia? Mettendo alle costole di ogni questore, di ogni prefetto, di ogni magistrato inquirente un controllore non italiano?
Con una political culture, che rema sistematicamente contro, la stessa richiesta di una sorta di par condicio europea volta a far sì che non ci siano più sorvegliati speciali (come l’Italia almeno quando al governo si trova il centro-destra) ma tutti i membri della UE siano insieme controllori e controllati diventa impensabile.
I nostri <chierici traditori> fanno il possibile per nascondere che oggi, in fondo, abbiamo tutti gli stessi problemi e tendiamo a risolverli allo stesso modo (non sempre civile). Nel clamore assordante delle polemiche da essi esacerbate le somiglianze non vengono riconosciute e sfugge che persino i critici più accesi si lasciano sfuggire opinioni che ‘Il Manifesto’ o ‘Liberazione’bollerebbero come ‘etnocide’. Non poco emblematico, al riguardo, è il caso del citato Orban che, parlando dei rom, ha dichiarato, nel corso di un’intervista al ‘Corriere della Sera’: <tentiamo di integrarli, costruiamo delle case> ma <i loro campi no, non li tolleriamo: li consideriamo un rischio per la sicurezza e la salute pubblica>. Se l’avesse detto Roberto Maroni, Claudio Fava lo avrebbe denunciato alla magistratura italiana per istigazione a delinquere.