Liberalismo e pseudocetti
10 Novembre 2007
E’ una pagina tratta da uno scritto di Giuseppe Galasso, La nazione difficile (1994) riportato nella silloge,L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica (Ed. Le Monnier 2002). L’Autore, com’è noto,è uno degli storici più prestigiosi del nostro tempo: allievo di Benedetto Croce, ha subito nondimeno l’influenza di altri Maestri del Novecento, da Luigi Salvatorelli a Rosario Romeo, per citarne due pur molto diversi, e, inoltre, ha meditato sulla lezione di Antonio Gramsci e dei grandi spiriti del Risorgimento italiano, Mazzini, Cattaneo etc. E tuttavia la sua riflessione sulla political culture italiana resta emblematica di un nodo concettuale irrisolto dello storicismo liberale, quale si è venuto elaborando nel nostro paese, riconducibile a una mai superata diffidenza per le scienze sociali e per i loro pseudoconcetti. Vediamo in che senso.
Secondo uno schema classico, le risorse del potere sono, sostanzialmente, di tre tipi: quelle politiche, legate alla disponibilità degli strumenti della violenza e al controllo degli apparati d’ordine; quelle economiche, legate alla padronanza dei mezzi che consentono la riproduzione, la sopravvivenza, il benessere dei gruppi sociali; quelle simboliche, legate alla produzione di identità etico-sociale ovvero alle visioni del mondo, alle attese e alle aspettative degli individui nei confronti dell’autorità e, in ultima istanza, al senso e al significato del loro stesso passaggio su questa terra. (‘L’uomo non vive di solo pane’)
Lo storicismo italiano, nelle sue espressioni più alte, prende in seria considerazione queste tre dimensioni, che i teorici medievali riconducevano alle categorie dei bellatores, degli oratores e dei mercatores ma soprattutto per quanto riguarda la loro genesi e l’interazione che le ha portate all’esistenza. Si sofferma meno, invece, sulla loro natura e sovente pare ignorare la loro funzione. Il divenire storico è, in questa prospettiva teorica, imprevedibile e nulla mai si ripete nel corso infinito e indeterminato degli eventi. Le istituzioni politiche–ad es., lo Stato, il Parlamento, le corti giudiziarie–nascono da sfide reali e drammatiche, da bisogni materiali, da istanze ideali e ogni volta assumono ‘forme’ specifiche, diverse le une dalle altre, ma tutte caratterizzate dal fatto di rappresentare, in sé e per sé, dei meri ‘contenitori della vita’, destinati inevitabilmente a trasformazioni profonde pur se rispettose(talora) delle vecchie ‘apparenze’. Analogamente le ideologie politiche sono sistemazioni concettuali di un processo spirituale che sempre le ‘supera’,le riplasma dall’interno, facendo assumere alle stesse parole significati differenti e persino opposti. Che i ‘prodotti dello spirito’ e dell’agire umano possano costituire ‘variabili indipendenti’ che, nate dall’interazione dialettica, finiscono per assumere una ‘natura’ (relativamente) stabile e per svolgere impreviste ‘funzioni’ positive o negative, a seconda del modello sociale e politico che gli ‘uomini in carne ed ossa’ hanno in mente, è un sospetto che non sembra sfiorare la scuola di pensiero in esame.
In tal modo, analisi come quella (magistrale) di Giuseppe Maranini sullo pseudoparlamentarismo italiano e sul suo rapporto con il potere dinastico e con l’incapacitante sistema elettorale, diventano, nel migliore dei casi, interpretazioni ingenue, almeno per un sapere più profondo che individua il malessere dell’Italia umbertina non in specifici meccanismi istituzionali ma in un ben più ampio e ricco contesto politico, economico, culturale etc. (V. le forti critiche di Alberto Aquarone all’autore della Storia del potere in Italia).
Analogamente la ricostruzione di una ben definita ‘ideologia italiana’—quale emerge nella Storia dell’idea antiborghese in Italia di Domenico Settembrini o nella Fabbrica delle ideologie di Giuseppe Bedeschi, due opere da tener distinte per taglio metodologico e impianto teorico ma, per non pochi aspetti, complementari—diventa quasi un tentativo di imbalsamare la vita, una sorta di donferrantismo filosofico.
Eppure non è forse vero che le cosiddette ‘sfide della storia’ –che si riflettono nella mente in forma di istanze e di valori–non mettono mai in ‘rapporto diretto’ gli individui concreti animati da speranze e da paure, ma li fanno interagire su un terreno segnato dalle ‘variabili indipendenti’ costituite dalle ‘istituzioni’—sia quelle della mente sia quelle della distribuzione—sancita dalle leggi scritte e non scritte– dei ruoli di potere e di autorità? Che la crisi degli