
Libertà e democrazia divorziano con Robespierre

21 Agosto 2007
L’articolo di Dino Cofrancesco (Gli strani
libertari italiani) sollecita alcune riflessioni aggiuntive, non una
risposta, ma una sorta di chiosa per tentare di mettere meglio a fuoco, con un
rapidissimo excursus storico, il
non sempre pacifico rapporto che è esistito fra liberalismo e democrazia.
Oggi, soprattutto nel linguaggio corrente, i
due termini sono pressoché interscambiabili. Questa irriflessa e forse
impropria identificazione semantica è il frutto positivo di una stratificazione
storica. Dopo molti decenni di libertà, come quelli che l’Europa ha vissuto a
partire dal lungo dopoguerra, risulta difficile immaginare dei regimi basati
sul suffragio universale che non siano anche rispettosi dei diritti degli individui.
Il processo identificativo è tanto forte che non manca di risentirsi anche nel
recinto formalizzato della scienza giuridica. Perfino i cultori di diritto
pubblico, oramai, più che di stato di diritto preferiscono parlare di stato
costituzionale, mettendo l’accento sui limiti del potere legislativo come
necessario complemento della sovranità popolare.
Storicamente, questa identificazione non è
sempre stata così pacifica. Tutt’altro. Nel corso del XIX, lo ricorda anche
Cofrancesco, i teorici della democrazia (a partire proprio da Mazzini)
sottolineano la necessità di superare gli angusti argini censitari dei regimi
politici liberali in nome dei diritti popolari. Molta parte della storia
dell’Ottocento europeo si svolge sotto il segno dell’integrazione o del
contemperamento del liberalismo con la democrazia. Un processo non pacifico,
che conosce esiti più o meno conflittuali nei diversi contesti nazionali. Un
processo che nel corso del XX secolo le guerre mondiali e l’avvento dei
totalitarismi hanno di molto rallentato fino alla fine della seconda guerra
mondiale, quando l’integrazione non solo è ripresa ma è arrivata fino
all’osmosi.
Pure, se andiamo più indietro nel tempo, e
guardiamo alle origini del governo rappresentativo, quando prende vita per la
prima volta il modello di regime politico che siamo abituati a considerare come
normale, ci accorgiamo che la differenziazione tra liberalismo e democrazia si
stempera. Nel corso del XVIII il regime politico ideale è quello britannico. Da
Voltaire a Montesquieu la cultura illuminista celebra la costituzione inglese
come la più perfetta alchimia fra i poteri. La rivoluzione americana cambia il
quadro di riferimento offrendo un nuovo modello politico. Un modello non
astratto, ma reale, perfettamente funzionante. Con la nascita dell’unione
americana si afferma il governo rappresentativo, ovvero la possibilità di una
repubblica su di un territorio geograficamente assai esteso. Per alcuni dei più
entusiasti propagandisti e teorici del regime rappresentativo (da Paine a
Condorcet) la democrazia e il liberalismo erano naturalmente congiunti. Il
nuovo tipo di regime si presentava come spontaneamente democratico. Cioè basato
su di un suffragio assai allargato e tendenzialmente universale. Il voto a
tutti avrebbe incluso nella cittadinanza la grande maggioranza degli abitanti,
scongiurando il pericolo di rivolte incontrollate. I diritti degli individui,
ritenuti essenziali, non avevano bisogno di essere tutelati dal bilanciamento
gotico che si aveva in Inghilterra, ma potevano essere meglio assicurati da un
razionale sistema di garanzie: distinzione tra potere costituente e potere
costituito, chiara delimitazione dei poteri dell’assemblea e dell’esecutivo,
decentramento territoriale, dichiarazione dei diritti (e se si vuole anche dei
doveri).
È il
tragico svolgimento della rivoluzione francese che recide di colpo questo
legame originario. Con il predominio della fazione giacobina torna in gioco una
più primitiva e rozza cultura costituzionale. Suggestionato dal confuso concetto della volontà generale
teorizzata da Rousseau, Robespierre contrappone al regime rappresentativo
moderno il mito della democrazia degli antichi. Gli argini costituzionali e le
garanzie dei diritti appaiono inutili orpelli, per salvare la rivoluzione basta
la virtù civica che si declina come spietata volontà persecutoria: il Terrore è
all’ordine del giorno. Così la speranza di un regime rappresentativo libero
naufraga nel sangue. Neanche il Termidoro riesce a riportare la rivoluzione su
dei binari sicuri e si passa alla dittatura bonapartista. La riflessione di
Benjamin Constant, il maggiore teorico del liberalismo moderno, si sviluppa
proprio in quella stagione. Logico che la sua attenzione si concentri
soprattutto sui limiti del potere e sui diritti dell’individuo. Non meno logico
che Constant sia diffidente verso il suffragio universale. Per risarcire quella
cesura molta acqua dovrà passare sotto i ponti della storia.