L’Ilva ci ricorda quanti danni abbia prodotto in Italia l’ideologia ambientalista

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L’Ilva ci ricorda quanti danni abbia prodotto in Italia l’ideologia ambientalista

30 Luglio 2012

Il dramma dell’ILVA di Taranto pone a noi tutti interrogativi molto seri. Rischia la chiusura uno stabilimento storico, uno degli ultimi capisaldi dell’industria di base, già di mano pubblica poi dismesso ai privati, sicuramente uno dei pochi presìdi industriali del Mezzogiorno, ma per le sue caratteristiche produttive vera e propria spina dorsale dell’apparato manifatturiero italiano.

Taranto è stata bloccata per lunghe ore dalla protesta dei lavoratori, mentre comitati di cittadini difendevano la decisione della magistratura di bloccare le aree produttive più critiche della acciaieria, ritenuta responsabile di un devastante inquinamento ambientale e della diffusione di patologie oncologiche dovute – è questa l’accusa –  alle emissioni provenienti dagli  impianti. Per fortuna il Governo è stato in grado di intervenire tempestivamente con un piano di bonifica e di risanamento, dotato di un ragguardevole finanziamento, che può costituire una risposta della politica alla crisi, sempre che si riesca ad assicurare, in sede di riesame delle richieste dei pm, la continuità produttiva dello stabilimento; in sostanza, sempre che prevalga una gestione razionale e consapevole di una fase che, in mancanza, potrebbe avere effetti devastanti. Perché in ballo non vi sono soltanto 12mila posti di lavoro a fronte del diritto alla salute di 150mila persone residenti. E’ l’intera città (e non solo essa) a vivere sulla fabbrica che è pur sempre una delle ultime grandi acciaierie sopravvissute in Europa.

Appare fin troppo facile affermare che lavoro e salute non possono essere in alternativa tra di loro. La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori  ha costituito l’embrione di quei diritti sociali che hanno formato, nel tempo, un moderno sistema di welfare. Basta risalire alla fine del XIX secolo per trovare l’affermazione, nelle prime legislazioni di carattere sociale, del principio del <rischio professionale> in forza del quale il datore, proprio perché si avvale del lavoro dei propri dipendenti ha il dovere di garantire loro condizioni di sicurezza e di risponderne in presenza di eventi negativi quali gli infortuni e le malattie professionali sulla base di una presunzione assoluta della pericolosità del lavoro, soprattutto in ambienti in cui siano operativi e funzionati  degli impianti e dei macchinari.

La legislazione più recente (ma risalente ormai a parecchi decenni) ha individuato dei nessi di responsabilità dell’impresa nei confronti del territorio circostante. Così esistono precise regole sulle emissioni, gli scarichi, lo stoccaggio dei materiali di scarto, specie se pericolosi, e quant’altro: regole la cui frequente violazione ha prodotto devastazioni ambientali inaccettabili, avvelenando i fiumi, il mare, l’aria, la terra, le acque. Nel contesto della globalizzazione la possibilità o meno di saccheggiare il territorio (al pari di quella di sfruttare la forza di lavoro) è diventata una componente di quella corsa alla competitività che non ha più rispetto di tutto quanto può diventare un costo, un vincolo o un impedimento.

Sulla base di tali considerazioni e di tante altre di analogo tenore, sarebbe facile schierarsi con i pm che hanno disposto la chiusura delle aree a caldo dell’Ilva e disposto l’arresto di alcuni dirigenti. Se non che è arduo sottrarsi ad un’assillante domanda: a chi si renderebbe giustizia in un deserto? Tanto più che nei provvedimenti di sequestro sembra che non si tenga conto delle migliorie che sono state apportate ai cicli produttivi negli ultimi anni.

Ma non è la prima volta che difesa del lavoro e protezione dell’ambiente entrano in conflitto. E’ stato così, più o meno, in tutti i centri disseminati per l’Italia – da Marghera a Genova, da Piombino  a Ferrara, a Ravenna, a Bagnoli, a Priolo, a Gela fino alla Sardegna – dove, tra gli anni 60-70 del secolo scorso, era stata dislocata l’industria di base siderurgica e chimica. E, alla fine, le istanze radicalmente ambientaliste (grazie anche ai processi di crisi industriale non solo in Italia, ma in gran parte della Europa) hanno avuto una facile vittoria di Pirro. Le ciminiere che sfidavano il cielo sono spente, gli impianti che occupavano il territorio per decine di Kmq sono diventati esempi di archeologia industriale.

Laddove sorgevano fabbriche ora si estendono ipermercati o sono sorti alveari abitativi. I grandi dinosauri sono morti. Ma ora il Paese è più povero e il lavoro più precario. In queste vicende hanno pesato travolgenti trasformazioni economiche derivanti dalla nuova distribuzione internazionale del lavoro (salvo accorgerci adesso dell’importanza strategica dell’industria di base che, proprio perché <inquinava>, è stata delocalizzata nei paesi emergenti), per cui sarebbe veramente fuori luogo trarre conclusioni semplicistiche legate ad una vicenda, come quella dell’ILVA, che, speriamo, possa risolversi nel migliore dei modi, salvaguardando lavoro e ambiente.

Ma una considerazione merita di essere effettuata. Esiste in molte circostanze, da noi, l’atteggiamento incoerente di chi vorrebbe sviluppo, lavoro e benessere, ma ne rifiuta i corollari inevitabilmente negativi. E’ il caso del rifiuto ideologico dell’energia nucleare oppure delle sollevazioni popolari contro i termovalorizzatori, gli inceneritori, le discariche controllate. Come se si prendessero di mira i processi produttivi necessariamente sottoposti, proprio per la loro alta dose di rischio, a protocolli di sicurezza, nello stesso momento in cui si consente all’economia sommersa – magari avvalendosi di braccia straniere – di provvedere brutalmente ad assicurare quanto si nega all’economia emersa e regolare. Produrre l’acciaio, poi, non è come lavorare (con tutto il rispetto) all’Agenzia del Territorio o a Poste Italiane.  Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la c.d. Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) ad un’età in cui, oggi, i giovani si pongono il problema se è venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma allora come oggi, vi è sempre un saldo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Dal Paradiso Terrestre Adamo ed Eva furono cacciati milioni di anni fa. Da allora nessuno ci ha più rimesso piede.

P.S. Alla mia rubrica di lunedì scorso sono stati dedicati parecchi commenti. Alcuni mi hanno colpito per una faziosità che rasenta la menzogna. Come si fa sostenere – e in base a quali elementi di fatto – che è stato l’annuncio di voler ridiscendere in campo di Silvio Berlusconi (evento che può essere o meno condiviso) a determinare l’impennata dello spread?