L’importanza di chiamarsi Buckley. Papà Tim e la storia di suo figlio Jeff

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L’importanza di chiamarsi Buckley. Papà Tim e la storia di suo figlio Jeff

L’importanza di chiamarsi Buckley. Papà Tim e la storia di suo figlio Jeff

16 Maggio 2010

a Gianni Mario Paris

Le luci si stanno per accendere. Non importa se lì fuori siano in tanti o pochi. L’importante è che, ancora pochi istanti, e non si potrà più bluffare. Il palco è una strada che ti si apre davanti: bella, come un rettilineo con una macchina sportiva sotto il sedere e l’assetto giusto per spingere il pedale. Ma… dietro, alle tue spalle, c’è un portone pesante che sta per chiudersi. Doppia, tripla mandata. Sì, dovrai sudare un bel po’ per recuperare la chiave! Soprattutto, dovrai meritartela. Non si tratta, perlomeno non soltanto, di agganciarti con i piedi e tutto il corpo sulla linea di demarcazione tra amplificatori e folla per dimostrare il tuo coraggio. No, non è questo. Né di imbracciare gli strumenti e sciorinare con sicumera tecnica e talento. Il mondo è pieno di gente capace di fare grandi cose, ma incapace di dare, di muovere (Come avrebbe detto Nina Simone? Ah, sì: Do I move you / are you willin’?). No, quel che ci vuole è ben altro. Vibrazioni, innanzitutto. E un fuoco diverso. La capacità di loquire in una lingua inintelligibile nella sua determinazione eppure così facile da decodificare nel cuore di chi ascolta. Vale a dire: non soltanto scalare una montagna piena di buche, crepacci, dislivelli. Ma farlo senza mani. Ascendendo.

E cosa sperare, dove cominciare se, oltre tutto questo, quel che ti si chiede di emulare è la magia non già di un artista qualsiasi ma di tuo padre, di un uomo, Timothy Charles Buckley III (solo Tim Buckley per la leggenda) che con la sua voce ha segnato un’epoca? Lo sai, sì, che la maggior parte di quelli che sono lì ti stanno aspettando al varco, vero? “Le glorie dei padri si abbatteranno sui destini dei figli”… Loro vogliono vedere e sentire fino a che punto ti spingerai, fino a quando potrai resistere prima di spezzarti e cominciare a frignare. Perché è certo che ti spezzerai. È sicuro che non potrai essere mai neanche lontanamente all’altezza di un’eredità così pesante. Non c’è dubbio, insomma, che ti trasformerai in un novello Sisifo costretto a rotolare in eterno il mastodonte di pietra del tuo cognome. Altro che rolling stone! A rotolare sarai tu, sfracellandoti in un baratro chiamato frustrazione.

D’altronde, di destini come il tuo ce n’è più d’uno nella storia della musica, no? Lennon figlio, Marley figlio, Patti Smith figlia… quant’è lungo l’elenco? Magari non tutti ne soffrono, qualcuno è anche riuscito a venirci a patti negl’anni, ma sotto sotto… è dura, inutile darla a bere. La possibilità che tu possa essere solo e soltanto “la prole di” è una sventura che incombe sul tuo futuro come un’aquila sulla preda. Difficile, praticamente impossibile sfuggirne agli artigli. Ma ormai è ora, lo show deve cominciare. Quando le luci si accendono del tutto, si riescono a distinguere nitidi i tratti del tuo volto, del tuo corpo. E a qualcuno vengono le traveggole. Oh, Dio santissimo, è lui… Ma come? Tim è morto nel 1975, non può essere!

In effetti la somiglianza con tuo padre è pazzesca. Basta prendere la copertina del meraviglioso Happy Sad: gli occhi, la bocca, il collo… Beh, nulla di strano, in fondo. Se non altro, a nessuno verrà da pensare che di quel cognome te ne sia appropriato indebitamente. Ma da qui al retorico talis pater, talis filius
Si dà il caso che papà abbia avuto cinque ottave di voce e le abbia incastonate come gemme scintillanti in perfette tele di ragno sonore; si dà il caso che papà abbia sperimentato con un’inventiva fuori dall’ordinario tutto l’alfabeto ritmico ed emozionale che dal folk più ingenuo conduce alle vette della psichedelica più avantgarde degli anni Settanta; si dà il caso che papà con Blue Afternoon, Lorca, Starsailor e il già ricordato Happy Sad abbia convinto i critici più accreditati ad inserirlo nell’Olimpo dei più grandi di tutti i tempi (a riprova di ciò, in Italia, si leggano le parole spese da Riccardo Bertoncelli). Insomma, il salto che ti si chiede di spiccare non è un mero balzo felino (d’altronde sarebbe pur sempre una prerogativa insita nel tuo DNA, no?), ma una sospensione in quota ai livelli del Bob Beamon di Città del Messico.

“Buona sera a tutti, io sono Jeff Buckley e questo pezzo si chiama Mojo Pin”. Una chitarra effettata in crescendo, fa da sfondo ad un arpeggio che s’intrude nei precordi prima che nelle orecchie. Però, il ragazzo! Parte la tua intro vocale fatta di un sussurro tenerissimo che sale piano piano sfumando in un sospiro. E poi la strofa. Come un tappeto di rose senza spine sopra il quale camminare ebbri di sentimento: Don’t wanna weep for you / I don’t wanna know / I’m blind and tortured / the wild horses flow / The memories fire / the rythms fall slow / Blaaack beauty / I love you so…. Post hippies e sessantottini decrepiti ti fissano a bocca aperta. Senza sapere che fare. Che tu sia bravo, non c’è il minimo dubbio. Ma che tu sia così bravo da non riciclare neanche uno spunto paterno, pare impossibile oltre che oltraggioso.

Ed è così che, di fronte alla tua personalità e inventiva si sentono spaventati. Ma non è ancora niente, perché quando cominci a tirarle per davvero le tue corde vocali, sarà anche che sei la prole di Tim, ma il tuo demone e il modo con cui hai scelto di esorcizzarlo sono senza dubbio farina del tuo sacco. E si capisce subito che è un sacco senza fondo, perché auscultando Last Goodbye, Lover you should’ve come over o la cover di The way young lovers do, c’è ben poco da fare i finti tonti: tu sei un’altra cosa. Grande. Eppure… Eppure la maggior parte di chi ti sta ascoltando, non ci vuol stare. Non ci vuol credere al fatto che in quel travaso prodigioso di grazia (Grace, appunto, come il tuo primo album) neanche una stilla una di eccellenza sia andata perduta. Insomma, lui era Tim Buckley, il genio, il maestro inarrivabile! E allora comincia a prendere piede un modo alquanto odioso di crearti fastidio. Sì, perché dalle file più indietro e piano piano anche da quelle più avanti qualcuno trova il coraggio (o la codardia) di strillare il nome di tuo padre, chiedendoti di suonare qualche suo classico.

Probabile che dopo aver sentito quello che sei stato in grado di fare, si tratti soltanto di uno sparuto drappello di nostalgici inguaribili (magari anche un po’ troppo su di giri, chissà). Potresti fregartene bellamente e belluinamente reagire con il resto della tua performance che, ormai non ci sono dubbi, sarà memorabile. E invece no, decidi che i conti vanno regolati. Subito. Senza sconti, indulgenze. Con te stesso e il tuo passato, prima di tutto. E poi con il resto del mondo, affinché la dichiarazione d’intenti sia deflagrante e definitiva. È così che, proprio mentre stai per attaccare l’ultima canzone, all’ennesimo “Tim!” proveniente dal basso, lasci i tasti della chitarra e tiri via la bocca dal microfono. Quello che succede dopo è una scena che nessuno dei presenti potrà dimenticare. Ti si vede fare un passo indietro, indugiare un secondo in una smorfia e poi, senza nessun preavviso, produrti, con mimica, gesti e rantoli inequivocabili, in una perfetta simulazione di un’overdose. È la morte che stai mettendo sul palco. Quella di tuo padre, che, lo sanno tutti i presenti, per una – si dice – stupida scommessa si fiondò in corpo una badilata di eroina rimanendoci secco.

Scende il silenzio, ora. Un gelo polare. Colpiti dalla violenza di quel che hai recitato, tutti riescono a ricordare, a ricostruire. Un bimbo di pochi anni abbandonato insieme alla madre, la bella Mary, a un futuro pieno d’incertezze e indigenza. Un padre che se ne va sacrificando il sorriso di suo figlio all’arte e alla dannazione. Un punto di riferimento che non c’è e non è stato quando la fragilità e la cattiveria del mondo prendevano il sopravvento. Okay, è lecito pensare e constatare che non sei stato certo l’unico a dover patire una mazzata del genere. Figurarsi, il mondo è così pieno di brutte storie, che quasi quasi ti tocca sentirti fortunato! L’unico dettaglio è che nessuno si sarebbe sognato che a distanza di tutti questi anni tu fossi potuto diventare così. Grande, tanto grande a tua volta da spazzare con un lieve soffio della tua arte un fantasma enorme e ingombrante. Né, d’altronde, qualcuno avrebbe potuto immaginare che il dolore provocato da quell’abbandono potesse essere ancora così forte da spingerti a quella drammatica forma di difesa che hai scelto di mostrare a tutti a mo’ di recita. Ma prima di chiudere una volta per tutte il discorso, sai che rimane una cosa da fare. Struggente e dolorosissima, ma inevitabile. Lo volevate quel maledetto confronto, ebbene lo avrete. Anzi, ve lo scaglierò addosso proprio ora che avete tutti ben capito che non ho nulla da dimostrare.

“Visto che molti di voi continuano a chiedermi un pezzo di mio padre…” La scelta, naturalmente, non può certo esser casuale. Si potrebbe intonare Strange feeling o Gipsy woman o Phantasmagoria in two, ma tu sai che per mettere davvero la parola fine ai dubbi nei tuoi confronti la prova da superare è una sola: I never asked to be your mountain. Tuo padre (con l’ausilio dell’eccelso chitarrista Lee Underwood) ne scrisse liriche e melodia qualche tempo dopo avervi lasciato. Un testamento, nel quale vi spiegava, a te e a tua madre, l’irrinunciabilità della sua scelta. L’impossibilità di fermare quello che doveva accadere. Al di là dei giudizi morali, delle ragioni e dei rancori, tu lo sai: è un capolavoro. Una delle sue canzoni più amate e rappresentative. Farla “da Jeff Buckley”, tradurla con la sola forza della tua voce nella risposta che non gli hai mai potuto dare di persona, chiuderebbe definitivamente il cerchio. E così, con lo sguardo basso e quella tua timidezza delicatissima, torni al centro dello stage e l’annunci: “I never asked to be your mountain. Contenti?”

È una chitarra sporcata dagli effetti ma sostenuta dall’intenzione a fungere da intro. Ti si vede chiudere gli occhi giusto un attimo prima dell’attacco vocale e poi darci dentro. Papà, papà? Dove eri, padre? Dove sei ora mentre mi offro quale agnello designato al banchetto di noia e nostalgia di tutti questi estranei? Lo senti, lo senti, papà, che il gioco delle tue melodie non mi sfugge un istante e che… e che ti odio e ti amo, padre, ti amo e strillo a Dio il mio lancinante “perché” mentre m’erpico senza paura sui tuoi acuti e sulla tua poesia egoista col cuore che mi scoppia? I never asked to be your mountain / I never asked to fly / remember when you came to me / and told me of his lies… And the rain was falling on that day / and damn the reason why. Sì, dimmi quale maledetta ragione, papà, mentre il sangue, il tuo sangue, scorre bollendo nelle vene istericate e m’illumino d’un immenso che è l’eterno mistero di dolore che m’hai regalato e ti chiamo e mi struggo e ogni atomo mio implode condannato a Vita da Te che sei Me, sì, che sei Me e sempre sarai, dolce stimmate eterna nella linea retta della creazione, che dal Padre va al Figlio. E al figlio, al figlio… in un beffardo – a tratti atroce – colpo di coda dell’Anima chiamato Amore.

Mi senti, papà?
I never asked to be your mountain…
Papà, mi senti?
I never asked…
Li senti, Papà?

La canzone scivola via in un ultimo accordo trattenuto e poi non c’è più. Ora c’è solo silenzio in sala, un silenzio che neanche Brian Eno nella sua sperimentazione più ardita avrebbe saputo immaginare. Ma è un attimo, davvero. L’applauso che esplode ti fa rialzare la testa e guardare, finalmente, dritto avanti a te. Quelle mani che applaudono, quelle bocche che ora acclamano, strepitano… Te… È la tua folla, ora.
Papà, non lo so, di sicuro è una cosa più grande di me, ma la vita sta andando avanti. Portandosi dietro tutto. Compreso il Rancore. Compreso l’Amore. Non me l’hai mai detto, ma lo so di per me: lo show deve continuare. E io sono qui. Forte e ferito. Divino e troppo umano. Tu, Tim. Io, Jeff. Così lontani, così vicini. I Buckley. Finché morte non ci avvicini.

Le luci scemano in un viola tenue, quasi irreale. Tu saluti l’infinito applauso con un “grazie” timido e sottovoce. Ti sfugge addirittura un sorriso, mentre deponi la chitarra tra le braccia del tuo roadie e la gente che grida: “Jeff! Jeff!” fino a sgolarsi.

È ora di andare via.
È ora di andare avanti.
Finalmente!
Ciao, Papà.