L’importanza di chiamarsi Eminem

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L’importanza di chiamarsi Eminem

13 Giugno 2009


“Sono un padre, prima ancora di essere un rapper. Quindi, sai cosa intendo, cascasse il mondo, mia figlia viene prima di tutto il resto. Se succede qualcosa d’importante nella sua vita e io devo essere presente, allora lascio perdere quello che sto facendo, oppure programmo le cose in base a quell’evento. Molto spesso la porto con me, anzi, lei è venuta spesso con me in tour ed è come se fosse la mia piccola amica, cavolo, certe volte diventa proprio il mio braccio destro”.

A parlare non è un personaggio da libro cuore e nemmeno un fervente cristiano pro-life dedito alla vita di famiglia e a santificare le feste. Questo è Bruce Marshall Mathers III, in arte Eminem. L’uomo contro il quale tutti i moralisti di questo mondo puntano il dito accusandolo di essere un “distruttore della morale” , un “pericoloso fuorilegge” e bla bla bla.

D’accordo, la scritta “Parental Advisory” la troverete su ogni suo singolo album, ma come lui stesso ha detto una volta: “Salvate il Soldato Ryan è stata una delle cose più violente a cui io abbia mai assisto, ma ricordo che nessuno ha parlato male di quel film”. Per chi non l’avesse visto, l’inizio di “Saving Private Ryan” mostra una ricostruzione molto cruenta dello sbarco in Normandia, in pratica un mattatoio con gambe e teste mozzate a non finire, davvero una delle scene più violente e grandguignolesche che sia siano mai viste nel cinema di guerra. In confronto, i testi di Eminem sono una barzelletta.

E’ proprio questo il punto: Marshall Mathers si prende in giro e prende in giro gli altri. Questa è una cosa un po’ difficile da capire per chi non è nato e cresciuto a Detroit negli anni Ottanta. Una città che si stava già svuotando, dove tutto ti crollava intorno, dove i rapporti sociali erano difficili perchè ognuno doveva pensare a sopravvivere in mezzo all miseria. Lo stesso “Brucie”, come lo chiama sua zia, viveva in un trailer (una roulotte) insieme alla madre e alla piccola Hailie, la figlia sua e di Kimberly – l’amata e odiata “Kim”.

A proposito di sua madre, chi conosce canzoni come Cleanin’ Out My Closet saprà certamente di cosa parliamo: un rapporto di amore/odio con l’ultimo che alla fine ha prevalso. Deborah Nelson, questo il nome di “mamma Eminem”, non è certo una "Jewish Mom". Il padre, Marshall Mathers II (in questo caso è il rapporto è di solo odio) ha sparso il seme e se  l’è data a gambe. Tutto questo deve aver pesato non poco sull’infanzia del piccolo Brucie (la zia lo chiamava così proprio per evitare di menzionare il padre).

Ed ecco anche il motivo per cui Marshall si affeziona tanto a “Uncle Ronnie” (Roland Dean Polkingharn) che era soltanto due mesi più grande di lui. Si può dire che quello era anche l’unico vero parente maschio al quale il nostro rapper fosse veramente attaccato. Quando Ronnie si suicida (la sua morte viene ricordata nella canzone Stan: "I know about you uncle Ronnie too I am sorry/ I had a friend killed himself over some bitch who didn’t want him"), si chiude il cerchio degli affetti familiari. Il colpo è di quelli davvero duri da mandare giù.

In quegli anni di povertà, sua madre “Debbie” si sposta da una parte all’altra dell’America in cerca di lavoro. Il figlio lo partorisce a Saint Joseph nel Missouri (vicino Kansas City) il 17 ottobre del 1972. Poi se lo “scarrozza” avanti e indietro tra Detroit e altri piccoli sobborghi e città, ovunque ci fosse un’opportunità di lavoro. Ogni volta Marshall è costretto a cambiare scuola e a ri-iniziare da capo con gli amici. Nella sua autobiografia The Way I am, inedita in Italia e che abbiamo letto per voi, Mathers spiega chiaramente come fosse difficile per lui, un ragazzo timido e iperproblematico, stringere amicizia e quanto fosse frustante dover cambiare aria ogni volta che riusciva a finalmente a farsi qualche amichetto/a.

Non è un mistero che Marshall non sia riuscito a superare la “ninth grade” (diciamo il primo liceo), dopo averla ripetuto tre volte. È a questo periodo che si riferisce Yellow Brick Road, un vero e proprio “affresco” rap della sua adolescenza:

Let’s rewind it to 89 when I was a boy on the east side of Detroit/ crossing 8 Mile into Warren/ into hick territory / I’d like to share a story, this is my story and cant no body tell it for me/ you will well inform me/ I am well aware that I don’t belong here / you’ve made that perfectly clear/I get my ass kicked damn near everywhere/ from Bel-Air shopping center just for stopping in there / from the black side all the way to the white side /oK there’s a bright side a day that I might slide.

Durante gli anni della scuola, Marshall si sottopone a pratiche di Social Welfare davvero umilianti. Per esempio, gli spettava un pasto gratuito alla mensa scolastica, dato il basso reddito di sua madre. “Avete idea di quanto sia umiliante presentarsi alla mensa e chiedere un pasto gratis perchè sei povero?”. Allora Debbie gli “allungava” cinque dollari per comprare due pacchetti di Winston Light 100’s e lui rubava sigarette e si teneva stretto il “Lincoln” per comprarsi il pranzo. “Le rare volte che riuscivo a comprarmi un pasto da solo mi sentivo orgoglioso”. Alle umiliazioni morali seguono quelle fisiche: a un certo punto un ragazzo più grosso di lui decide di riempirlo di botte senza motivo. Lo trascina in bagno e gli fa una faccia così, “mi ricordo di aver pensato che stavo per morire”. Ma forse dobbiamo proprio a quelle botte la sua musica, sono stati proprio i pugni presi quel giorno a fargli capire che se voleva rimanere vivo e affermarsi avrebbe dovuto imparare a reagire.

“Se non avessi preso quelle botte, forse adesso starei ancora a rigirare hamburger al Gilbert’s Lodge di Saint Claire”.

Il giovane quattordicenne Marshall Mathers decide di diventare un rapper, e come spesso accade, è un incontro a segnargli l’esistenza. Si tratta di Proof (Deshaun Holton), rapper che gli rimane sempre al fianco, sul palco e nella vita,  fino a quando non si becca una pallottola al C.C.C., un malfamato locale di Detroit, nel 2006. L’incontro con Proof (“nessuno sapeva fare il freestyle come lui, nessuno”, scrive Eminem nella sua biografia) e la sua relazione con Kim, sono magistralmente descritti nel secondo verso di Yellow Brick Road che riportiamo per intero:

I roam the streets so much they call me a drifter /Sometimes I stick up a thumb just to hitch hike/ Just to get picked up to get me a lift to 8 mile and Van Dyke/ And steal a god damn bike from somebody’s backyard / And drop it off at the park that was the half way mark/ To meet Kim had to walk back to her mama’s on Chalmers after dark/ To sneak me in the house when I’m kicked out my mom’s/ Thats about the time I first met Proof with Goofy Gary on the steps/ At Osbourne handing out some flyers, he was doing some talent shows /At Centerline High/ I had told him to stop by and check this out sometime / He looked at me like I’m out my mind / shook his head like white boys don’t know how to rhyme / I spit out a line / and rhymed birthday with first place / And we both had the same rhymes that sound alike / We was on the same shit that Big Daddy Kane shit with compound syllables sound combined/From that day we was down to ride somehow we knew we’d meet again somewhere down the line.

Crediamo che ci sia bisogno di una piccola "guida all’ascolto" dei testi di Eminem, che sono “poco digeribili” da un pubblico non anglofono ma che, guardacaso, tutti apprezzano. È lo stesso autore che ci fornisce questa “chiave di lettura” nella sua autobiografia: “Altri rappers che rispetto molto mi hanno detto che io sono stato il primo a mettere insieme parole che teoricamente non dovrebbero fare rima, ma quando le pronuncio a modo mio, invece, fanno rima. Per esempio: I laugh at the sight of death as I fall down a flight of steps and land inside a bed of spider webs. Queste parole non fanno rima, ma se le pronunci nel modo giusto, invece sì… ma sto molto attento nello scegliere il modo in cui rimare: non farei mai rima con ‘throat culture’ e ‘black volture’ perchè ‘throat’ e ‘black’ non vanno bene insieme. Invece potrei rimare ‘coat vulture’ e ‘throat culture’".

Insomma, Eminem avrà anche una misera licenzia media, ma non c’è dubbio sul fatto che abbia studiato la “sua cultura” in maniera maniacale. Altrimenti un premio nobel come Seamus Heaney (che ha insegnato poesia ad Oxford) non si sarebbe sbilanciato a citare proprio il rapper di Detroit per paragonarlo a Bob Dylan: “C’è questo ragazzo, Eminem, che ha creato un senso di quello che è possibile fare, ha dato una scossa a un’intera generazione e lo ha fatto non soltanto con il suo atteggiamento sovversivo, ma anche attraverso la sua energia retorica”.

Dopo aver provato inutilmente a studiare (“non è che fossi uno scemo o roba del genere, è che a un certo punto ho capito che questa cosa [lo studio, ndr] non faceva per me”), Marshall si dà a ogni genere di lavoro possibile: si intossica lucidando i pezzi di carrozzeria nella fabbrica della GM per pochi dollari l’ora, si consuma le mani lavando piatti e se le frigge rigirando hamburger. Quando torna a casa ci sono ad aspettarlo la sua ragazza Kim (che ha sposato nel 1999) e sua figlia Hailie Jade (nata il 25 dicembre del 1995). Ma quello di “casa” per il giovane Mathers è un concetto un po’ particolare, non foss’altro perchè ancora non ne ha mai avuta una vera e propria. Invece si è sempre dovuto trasferire da un posto a un altro, o perchè l’affitto era troppo alto, o per sfratto. Come se non bastasse, c’erano anche  i ladri a sgraffignare i pochi spiccioli che lui e Kim riuscivano ogni tanto a mettere da parte. Mockingbird è un pezzo (stupendo) che parla di queste cose:

I remember back one year when daddy had no money /Mommy wrapped the Christmas presents up, and stuck em under the tree /And said some of em were from me, Cause daddy couldn’t buy em /I’ll never forget that Christmas, I sat up the whole night cryin’ / Cause daddy felt like a bum, see daddy had a job / But his job was to keep the food on the table for you and mom / And at the time, every house that we lived in either kept gettin’ broken into and robbed / Or shot up on the block / And your mom, was savin’ money for you in a jar / Trynna start a piggy bank for you so u could go to college / Almost had a thousand dollars, til someone broke in and stole it / And I know it hurt so bad it broke you mama’s heart / And it seemed like everything was just startin’ to fall apart.

Cadeva tutto a pezzi. È da questa disperazione che nasce il primo album Infinite (scaricatelo gratis dopo esservi registrati sul sito ThisIs50Cent). Non vende molto, ma gli servirà come biglietto da visita. Infatti, dopo che Eminem si piazza secondo alle Olimpiadi Rap di Los Angeles del 1997 (a suo dire ingiustamente), il suo manager si mette far girare quella demo che arriva nelle mani dei ragazzi della Interscope Records e sopratutto di un altro personaggio chiave della vicenda: Dr Dre (Andrea Romelle Young), che diventerà il suo mentore.

Questo disco, come ammetterà “Slim Shady” (l’alter ego di Eminem), era soltanto un esercizio di stile. Al secondo tentativo,però,  stavolta con un vero studio a disposizione, arriva l’inaspettato successo. Tutti ci ricordiamo della rivoluzionaria, My Name Is, che sembra letteralmente cadere a pezzi con quel ritmo sconclusionato. The Slim Shady Lp vince quattro dischi di platino e vende circa 9 milioni di copie in tutto il mondo. Il suo autore si ritrova improvvisamente a non poter più uscire di casa (che finalmente ha potuto comprare) e da lì in poi inizia la fase da superstar della sua carriera. Siamo nel 1999.

L’anno dopo è la volta di The Marshall Mathers Lp che entra nel guinnes dei primati come l’album più venduto in assoluto nella prima settimana (1.76 milioni di copie). Qui si può acoltare la fantastica Stan (con il ritornello di Thank You di Dido) in cui Shady si mette nei panni di un suo fan (appunto, Stan) che continua a scrivere lettere al suo idolo e vuole fare di tutto per assomigliargli. Eminem, però, non risponde alle prime lettere. Stan allora perde la pazienza. Lega sua moglie incinta e la schiaffa nel bagagliaio.  Si dirige ubriaco verso un ponte, di notte e a novanta miglia orarie e intanto registra il suo ultimo messaggio. Lo schianto nel fiume è inevitabile, ma mentre la macchina vola, Stan si chiede come possa far avere quella cassetta al suo idolo.  Quando poi Eminem risponde alle sue lettere, ormai è troppo tardi.

Poi anche The Way I Am va ascoltata attentamente: si tratta di una denuncia contro chi vuole manipolare Shady e fargli scrivere canzoni Pop, ma è anche un grido di dolore di una persona che oramai non può più uscire di casa. Forse è proprio il carattere così intimistico dei suoi testi che portano Eminem a essere percepito non solo come un idolo ma anche come “un fratello”, uno di famiglia.

Kim  parla del burrascoso rapporto con la sua ragazza. La canzone rappresenta un litigio tra i due intermediato da un ritornello davvero azzeccato e molto melodico: Sooo wroooong, bitch you did me soooo wrooooong, I don’t wanna go-oooon, living in this world without youuuuu.

Poi c’è la parentesi da attore quando interpreta se stesso in 8 Mile (siamo nel 2002), il film diretto da Curtis Hanson con Kim Basinger nei panni della madre di “Rabbit” (ancora un altro alter ego di Marshall Mathers) e Mekhi Phifer in quelli del mentore “Future”. Da 8 Mile Shady riesce a tirare fuori una canzone sbalorditiva come Lose Yourself e una performance da attore che strappa applausi.

A fine maggio dello stesso anno, esce The Eminem Show, tutt’ora considerato uno dei suoi migliori album. Il successo oramai è planetario, Without Me è orecchiabilissima e di video così belli non se ne vedevano da tempo. Eminem vestito da Robin che salva un bambino dall’ascolto del suo nuovo disco mostrandogli l’etichetta "Parental Advisory" è uno spettacolo imperdibile. Qui ci sono almeno sette/otto canzoni che andrebbero sentite e risentite: dalle divertenti Business e Superman, alle riflessive Cleanin’ out My Closet (in cui si parla di sua madre Debbie), Sing for The Moment e Say Goodbye To Hollywood (una delle sue canzoni più belle in assoluto), passando per Hailie’s Song (dedicata alla sua adorata bambina) e altre. A oggi ci sono la bellezza di  venti milioni di copie di questo album in tutto il mondo. The Eminem Show colleziona pure dischi di platino a non finire (otto solo negli Usa).

Una popolarità così immediata e immensa non può non attirare sguardi indiscreti e invidiosi. Eminem si trova a dover controbbatere accuse di qualsiasi tipo, tra le più leggere, quelle di misoginia e discriminazione degli omosessuali. Lui stesso inviterà Elton John a fare un duetto proprio per dimostrare a tutti di non avere niente contro le persone gay. “Io e Elton John, siamo amici. Lui si è sposato con un altro uomo! È gay! E chi se ne frega?”.

Il motivo per cui questa parola, “gay”, nelle sue diverse versioni è spesso utilizzata nei suoi testi ce lo spiega direttamente lui: “Quando le persone hanno iniziato a indignarsi di fronte a questo fatto, ho iniziato a parlarne ancora più di frequente, proprio per farli arrabbiare ancora di più. Però, devo ammettere che non sono nella posizione di parlare di queste cose perchè non sono gay. E alla fine dei conti, la persona con la quale scegli di avere una relazione e il motivo per cui lo fai e soprattuto quello che fai nel tuo letto, sono fatti tuoi”. Le accuse di misoginia Shady le liquida con lo stesso argomento, mentre se la ride della cosiddetta violenza dei suoi testi. “Qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso, ascoltando un mio album dall’inizio alla fine dovrebbe farsi grosse risate e basta”. Non c’è niente di “seriamente” violento nei suoi testi.

Comunque, poco più di due anni dopo, è la volta di Encore (inzia anche la florida collaborazione con 50 Cent, alias Curtis James Jackson III), e si assiste alla cronaca di un altro successo annunciato. A parte la canzone che dà il titolo all’album, qui vale la pena ascoltare molto bene  Yellow Brick Road, Puke, Evil Deeds, Rain Man (divertentissima, gli varrà l’amicizia di Dustin Hoffman), Mockingbird e Crazy In Love, tutte magnifiche. Tuttavia, questo disco vende molto meno rispetto al suo predeccessore, “solo” undici milioni di copie in tutto il mondo. Poi c’è la solita pletora di dischi di platino.

A questo punto la carriera di Eminem subisce uno stop piuttosto lungo. I suoi fan hanno atteso per ben cinque anni l’uscita del nuovo disco, Relapse. In tutto questo lasso di tempo le voci in merito alla “fine di Eminem” si sono susseguite ad altre che lo volevano orami un felice pensionato/produttore. Niente di più sbagliato. Eminem è stato fuori dalla scena per così tanto tempo (se si esclude una collaborazione nell’album Eminem Presents: The Re-Up) per due motivi principali, tutti legati alla sua vita privata: la dipendenza da sostanze psicotrope e tranquillanti o pillole per dormire di tutti i generi (ascoltate Dèjà-Vu) e la necessità di stare vicino alla sua famiglia, “non puoi chiamarti padre e poi presentarti alle tue figlie una volta ogni tanto”. 

Tecnicamente parlando Relapse è un disco eccezionale, sia dal punto di vista lirico sia dal punto di vista musicale. Anche qui le canzoni da ascoltare “almeno una volta nella vita” sono tante: 3 A.M., My Mom, Bagpipes from Baghdad, Hello, Same Song and Dance, Dèjà Vu, Beautiful, Crack a Bottle (prestate attenzione a 50 Cent qui). Caratteristica comune a tutti gli album sono gli “skit”, stacchi comici che Shady prepara insieme al suo amico/produttore Paul Berman e che servono ad allentare la tensione.

Al di là del successo che comunque Eminem non ha mai inseguito e con il quale non si trova a proprio agio, e al di là di tutti i possibili nemici che si è fatto nell’ambiente (e fuori), una cosa è certa: questo ragazzo bianco nato a Saint Louis e cresciuto a Detroit, ha del talento da vendere e non si crede un Dio sceso in terra come tanti altri suoi colleghi, che hanno venduto la metà della metà dei suoi dischi. Ha dimostrato di avere un’abilità lessicale degna di Pico della Mirandola senza avere nemmeno un diploma e a differenza di tanti altri suoi coetanei non è morto d’overdose e non si è dato al crimine.

Oltre a questo, diversamente da tanti altri cosi detti “buoni borghesi”, è senz’altro un padre fantastico e il suo scopo nella vita è ben preciso: “Onestamente, mi piacerebbe essere ricordato come uno dei migliori ad aver mai preso in mano un microfono, ma se riesco anche a fare quello che posso per allentare certe tensioni razziali, allora, potrò dire di essere veramente a mio agio con me stesso. Voglio avvicinare le persone, credo che questo possa essere il maggior contributo che io possa dare all’Hip Hop”. Ditemi voi se questo è davvero un violento, misogino, razzista.