L’impotenza del mondo di fronte al dramma del Ciad
19 Giugno 2009
di Marco Cochi
All’inizio degli anni ottanta il Ciad era stato classificato come la nazione più povera del mondo. Quasi tre decenni dopo, questo vasto paese dell’Africa centrosettentrionale si trova ancora nei bassifondi dell’Indice di sviluppo umano pubblicato dalle Nazioni Unite: 170.mo posto su 177 Stati presi in esame. La miseria che lo attanaglia è testimoniata dal fatto che l’80% dei suoi dieci milioni di abitanti vive sotto la soglia della povertà con meno di un dollaro al giorno. Gran parte della popolazione si dedica all’agricoltura o alla pastorizia. Ma anche qui le difficoltà sono molte perché il territorio è arido e numerosi sono i periodi di siccità che generano gravi disagi a queste attività. Nel frattempo un rapido processo di desertificazione sta aggravando il prosciugamento delle poche risorse idriche presenti, tra cui il lago Ciad.
Una guerra civile senza fine
Ma i problemi del Ciad non sono solo di ordine economico e ambientale, ma anche e soprattutto di assetto politico. Fin dall’indipendenza conquistata nel 1960, l’ex colonia francese è stata sede di vari tentativi di rivolta. Gruppi di guerriglieri sono insorti a più riprese in tutto il paese, sostenuti soprattutto dalla Libia che mirava ad annettersi la zona settentrionale, la fascia di Aouzou nel Tibesti, ricca di uranio. Da qualche anno a questa parte è stato trovato il petrolio, e gli appetiti si sono moltiplicati. In particolar modo quelli del suo attuale presidente, l’ex leader del Movimento patriottico di salvezza (Mps) Idriss Déby Itno. Déby, salito al potere nel 1990 in seguito alla cacciata del sanguinario dittatore Hissène Habré, rifugiato in Senegal da 19 anni, ha vinto tre elezioni presidenziali, ma l’opposizione ha sempre sostenuto che siano stati i brogli a tenerlo in carica.
Certo è che la costituzione fino al 2005 limitava a due i mandati presidenziali che un cittadino ciadiano poteva ricoprire, ma Déby, come molti altri suoi omologhi africani, ha preteso e ottenuto una modifica costituzionale attraverso un referendum riconosciuto dalla comunità internazionale malgrado i dubbi sulla sua regolarità. Modifica che nel 2006 gli ha permesso di essere rieletto con il 77,5 per cento dei voti grazie anche alla scelta dell’opposizione di boicottare la consultazione.
Da quando Déby regge le sorti del Ciad molti movimenti antigovernativi hanno tentato di rovesciare il suo regime. L’uomo forte di del Ciad ha subito gli ultimi attacchi della guerriglia nell’aprile del 2006 e nel febbraio 2008 (dieci offensive ribelli dal 2005 di cui due sole fino à N’djamena, la capitale). Nel primo caso i ribelli, sostenuti da Cina e Sudan e capeggiati da Mahamat Nour Abdelkerim, successivamente rientrato nei ranghi e nominato ministro della Difesa, arrivarono alla periferia della capitale, dove le truppe governative li annientarono prendendo decine di prigionieri che furono persino mostrati in televisione.
Déby si difese cacciando i nazionalisti di Taiwan, con cui fino a quel momento aveva relazioni diplomatiche e riconoscendo Pechino, che aveva armato i ribelli. Sperava così di poter governare serenamente. Nel febbraio dello scorso anno, invece, alcuni gruppi ribelli finanziati da Khartoum e guidati dai suoi stessi nipoti, i gemelli Timan e Tom Erdimi, e dall’ex ambasciatore in Arabia Saudita ed ex ministro della Difesa Mahamat Nouri, hanno messo per tre giorni a ferro e fuoco N’djamena. Solo l’aiuto del contingente francese, presente nel paese in base ad accordi post-coloniali, ha consentito di respingere l’assalto e garantire la sicurezza del presidente.
Nelle ultime settimane, il dittatore si è di nuovo trovato ad affrontare l’avanzata di colonne di ribelli provenienti dal Sudan. Stavolta gli insorti si sono raggruppati sotto la sigla dell’Unione delle forze della resistenza (Ufr). La nuova alleanza, nata il 18 gennaio scorso, si è subito presentata come un movimento con un’unica direzione politica e militare, dopo anni di divisioni e contrasti che avevano portato alla formazione di nove diverse fazioni.
L’offensiva, lanciata dall’Ufr lo scorso 4 maggio, è stata respinta dopo tre giorni di combattimenti in cui, secondo fonti vicine all’esecutivo, avrebbero perso la vita 225 guerriglieri e 22 militari.
Sembra dunque difficile che il dominio del presidente Déby possa essere scalfito, almeno fino a quando riuscirà a mantenere il controllo dell’esercito e ad apparire come l’unica opzione possibile, elemento che gli consente di ottenere l’indispensabile sostegno internazionale, specialmente francese. Un sostegno che costituisce la sua principale fonte di legittimazione e di supporto in uno scenario di crisi permanente in cui il Ciad deve fare i conti anche con l’emergenza dei rifugiati che provengono dal vicino Sudan e dalla Repubblica Centrafricana.
Il sanguinoso conflitto che dal febbraio 2003 imperversa in Darfur, regione a ovest del Sudan, ha infatti provocato l’arrivo in Ciad di circa 250mila rifugiati sudanesi e 180mila sfollati ciadiani fuggiti dai ripetuti attacchi dei janjaweed, le milizie irregolari di arabi nomadi che con il benestare del governo sudanese di Omar al-Bashir radono al suolo interi villaggi.
La missione europea
Per fronteggiare questa emergenza, l’Unione europea il 28 gennaio del 2008 ha lanciato la missione militare Eufor Tchad/Rca, rimasta in Ciad fino al 15 marzo scorso in appoggio alla missione Onu Minurcat. Composta da 3.700 unità e stanziata in applicazione della risoluzione 1778 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del settembre 2007, l’operazione ha avuto il compito di contribuire alla stabilizzazione dell’area al confine con il Darfur, al fine di facilitare la distribuzione degli aiuti umanitari e di proteggere i civili, in particolare i rifugiati.
Avviata proprio in un momento di crisi e ritardata fino ad un dispiegamento ottimale a metà del 2008, la missione Eufor non è stata all’altezza del mandato assegnatole. Si sono evidenziate alcune delle maggiori lacune delle forze Ue, in particolare la scarsità di alcuni mezzi militari, come gli elicotteri. L’operazione è stata anche accusata da Oxfam International, un ’importante network di cooperazione, di non essere riuscita a proteggere i civili dalle violenze perpetrate nell’est del Ciad.
Le valutazioni delle istituzioni Ue sui risultati della missione, sono di diverso tenore. Secondo Bruxelles durante i 12 mesi in cui è stata operativa l’Eufor ha contribuito a prevenire attacchi nei confronti della popolazione civile all’interno della sua area di operazioni. È innegabile che la più grande operazione che l’Ue abbia mai condotto fuori dall’Europa ha dato un valido supporto sia ai circa 250mila rifugiati provenienti dal Sudan che agli sfollati interni nel Ciad orientale.
Lo scorso 15 marzo l’Eufor ha lasciato il passo alla Minurcat, che al momento conta meno di tremila operativi, mentre il dipartimento delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite ha numerose difficoltà a raggiungere i 5700 effettivi previsti. Inoltre, il dispositivo messo in opera secondo le risoluzioni 1778 e 1861 del Consiglio di Sicurezza, prevede una forza militare e una forza di polizia addestrata dall’Onu. Quest’ultima, nota con la sigla Dis (Détachement intégré de sécurité), scorta di norma i convogli umanitari delle Ong e protegge i rifugiati, ma ha ridotto le operazioni in seguito al recente deterioramento delle condizioni di sicurezza dovuto alla crescente diffusione del banditismo armato dopo gli scontri di maggio tra ribelli e truppe governative.
I convogli umanitari e le scorte sono di vitale importanza perché il personale delle Ong possa recarsi nei campi rifugiati e nelle aree destinate agli sfollati interni. Fino a quando non si riuscirà a migliorare la situazione di sicurezza, il che richiederebbe un impegno internazionale ben più consistente dell’attuale, anche gli aiuti umanitari avranno enormi difficoltà a raggiungere i destinatari. All’impotenza della diplomazia internazionale si aggiunge quindi il rischio che la spirale di violenza porti a un dramma umanitario sempre più grave.