“L’incertezza delle rivoluzioni arabe è un’opportunità per l’Occidente”

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“L’incertezza delle rivoluzioni arabe è un’opportunità per l’Occidente”

30 Marzo 2011

C’è grande incertezza a livello internazionale su quel che sarà l’evoluzione delle rivoluzioni nel mondo arabo: a prevalere sarà l’ansia di democrazia o i rigurgiti del fondamentalismo? E in che modo l’Europa sta assistendo a questi eventi di portata storica? Il professor Marc Lazar ci accompagna in un piccolo viaggio tra oriente e occidente, parlando di immigrazione, crisi del multiculturalismo, ascesa delle nuove destre europee, nella convinzione che l’intervento francese in Libia sia stata una scelta avventurista ma che non poteva essere evitata. 

Professore, parliamo delle rivoluzioni nel mondo arabo. Si può dire che sta cambiando la percezione che i musulmani hanno dell’Occidente?

Negli ultimi anni, nel dibattito intellettuale si è imposta un’idea, quella dello “scontro di civiltà” sostenuta dal professor Huntington. L’idea era che l’integralismo islamico avesse lanciato una sfida, culturale, politica, all’Occidente e questa sfida effettivamente ha creato una serie di tensioni a livello internazionale e anche all’interno di ogni singolo Paese democratico. La paura era che una parte dell’immigrazione nei paesi occidentali potesse essere coinvolta in questa sfida, che fosse una sorta di cavallo di Troia per la penetrazione dell’islamismo. Questa sfida è stata sicuramente un pericolo reale e nessuno può negarlo. L’islamismo non era un fantasma, qualcosa di inventato, ma una minaccia concreta.

E oggi cos’è cambiato?

La vera sorpresa, che riguarda una parte del mondo arabo – attenzione, dico una parte del mondo arabo, e aggiungo che non sappiamo come andrà a finire, dal Nordafrica alla Siria ai Paesi del Golfo – è che ci troviamo di fronte a una rivolta che monta su un sfondo fatto di grande frustrazione sociale, specialmente da parte di quella popolazione più giovane ed istruita che non trova lavoro, una rivolta che è anche legata alla capacità di ripercussione della rete informatica. I giovani criticano il potere, i loro governi ma, a differenza degli islamisti, invece di odiare l’Occidente chiedono più libertà e democrazia. Ovviamente si tratta di una situazione piena di incertezza perché non sappiamo cosa accadrà e perché è possibile che all’interno di questo mondo che si ribella ci siano delle componenti legate all’integralismo religioso. La domanda a cui dobbiamo rispondere, specialmente l’Italia, che si trova in prima linea, è quale sarà il nostro comportamento di fronte a questa aspettativa, a quest’ansia di libertà.

Quali sono queste risposte?

Innanzitutto quelle che riguardano i flussi migratori, la loro regolazione, un problema terribile che l’Italia sta vivendo proprio in questo momento. Dobbiamo anche avere una capacità di anticipare e prevedere quello che accadrà in futuro, di aiutare le forze realmente democratiche che lottano in questi Paesi senza assumere una posizione di superiorità nei loro confronti. Sarebbe bello che paesi come la Francia e l’Italia proponessero delle forme di accoglienza, anche simbolica, ma soprattutto reale, di questi giovani che un giorno saranno chiamati ad essere la classe dirigente dei loro Paesi. Forse da questo punto di vista possiamo pensare davvero a un’unione euro-mediterranea, che vada oltre la posizione francese, quella dell’Unione per il Mediterraneo lanciata negli anni scorsi dal presidente Sarkozy.

Siamo in un’epoca dell’incertezza, è vero, ma questa parola ha solo una connotazione negativa?

Per prima cosa si tratta di un’incertezza che riguarda quello che accadrà sul piano politico nei paesi del mondo arabo e musulmano: ce la faranno o no a costruire un regime democratico? Sappiamo per esperienza diretta che riuscirci è qualcosa di estremamente complicato, un processo lungo, in cui bisogna inventare istituzioni e culture politiche che questi paesi per il momento non hanno. Sappiamo anche che nel fronte dei “ribelli” ci sono ancora i nostalgici del vecchio potere, ci sono componenti religiose, ma anche forze laiche, e quindi ci sarà, c’è già, un conflitto, uno scontro al loro interno. Che forma di democrazia uscirà da queste rivolte? La seconda incertezza deriva dal rapporto tra mondo arabo e occidentale. I giovani arabi che stanno arrivando in Europa sono solo attratti dalla nostra ricchezza materiale? Vengono da noi solo perché pensano solo di trovare un lavoro, oppure sono sinceramente affascinati dai nostri valori? Pur con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, l’Europa può essere ancora vista come un modello d’integrazione, in grado di offrire degli spunti e delle idee agli altri Paesi, dall’Africa all’America Latina. La terza incertezza è quella internazionale. Oggi l’America sa di non poter più essere il poliziotto del mondo, Obama è molto più prudente di Bush rispetto al mondo arabo per quanto si stia impegnando dicendo che dovremmo armare i ribelli libici. Oggi la grande questione è quella posta dal multilateralismo: non c’è più solo una grande potenza ma ci sono molte potenze e la grande sfida per l’Europa è di trovare un suo posto e un ruolo nel mondo multipolare.     

Eppure in tutta Europa avanza una nuova destra protezionista e anti-islamica, critica verso i fenomeni migratori e più in generale verso la globalizzazione. Lei come giudica questo fenomeno?

Più globalizzazione c’è, più nei ceti popolari cresce l’idea di doversi proteggere. Più globalizzazione c’è, più aumenta la ricerca di una identità forte. Più globalizzazione c’è, più ci si ripiega su di sé, a livello nazionale, regionale, locale. Siamo in un mondo dominato da una piccola elite completamente globalizzata, che parla diverse lingue, che viaggia, e che in qualche modo si oppone alla gran parte della popolazione che invece ha paura, paura di perdere il lavoro, paura di perdere alcuni elementi della propria identità, paura dell’immigrato, dell’altro. Siamo davanti a un potenziale conflitto fra quelli che sono favorevoli alla società aperta e chi la pensa diversamente.

Sì ma queste non sono delle “false” paure…

Certo che no, sono vere paure che vengono considerate “false” da una parte della classe dirigente che non riconosce più il proprio “popolo”. Siamo in una società in cui ci sono elite politiche, economiche, culturali, accademiche, giornalistiche, mediatiche, che sono sempre più criticate dalla loro popolazione, a volte perfino odiate, e questo è davvero un grosso problema. Dobbiamo constatare che i due grandi modelli di integrazione in Europa sono falliti, sia quello multiculturale in Gran Bretagna, sia quello di integrazione repubblicana alla francese in cui i nuovi arrivati avrebbero dovuto rinunciare alla propria identità di origine.

Su quali parole d’ordine si basa il successo delle nuove destre?

Il populismo classico in Europa negli ultimi 20 anni si è basato sulla lotta contro l’immigrazione, sul tema della sicurezza, su quello della difesa della identità, ma le nuove destre, penso a Marine Le Pen in Francia, hanno aggiunto almeno tre elementi di novità: la rimozione del discorso su quanto avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale, voglio dire il discorso sulla shoah, il negazionismo e quant’altro, come faceva Jean Marie Le Pen; in secondo luogo il passaggio da una ideologia liberista a una difesa dello stato sociale – riservato ai connazionali e vietato agli immigrati –, accusando sia il centrodestra che il centrosinistra di aver sacrificato il welfare, e guadagnandosi quindi il consenso di parti dell’elettorato che prima votava a sinistra;  infine, e questo è accaduto particolarmente in Olanda e in Danimarca, questi partiti si presentano come i difensori delle libertà culturali occidentali, specialmente come i difensori dei movimenti femministi, e forse questo è il maggiore elemento di novità.

Cosa verrà dopo il multiculturalismo?

Si tratta di un modello che va assolutamente ripensato sapendo – e questa è la cosa più difficile da far passare come idea nelle opinioni pubbliche occidentali – che gli immigrati che arrivano in Europa non potranno ripartire facilmente. Primo perché c’è un declino demografico molto preoccupante – specialmente in Italia, e con mia grande sorpresa nessuno parla, non è un tema che caratterizza il dibattito pubblico sia a destra che a sinistra,  mentre dovrebbe essere una delle priorità del futuro del vostro Paese –  e questi immigrati hanno dei tassi di fertilità più alti (che con il passare del tempo tendono comunque a regolarizzarsi) e garantiscono una manodopera per lavori ancora importanti nelle nostre società. Quindi bisogna assolutamente ripensare a delle forme di integrazione di questi immigrati, qualsiasi sia la loro origine, cultura e religione, lo dico visto che in Italia la seconda religione dopo il cattolicesimo non è l’islam ma la religione ortodossa. Dobbiamo fare i conti con la pluralità dell’esistente e ripensare rapidamente e delle forme di integrazione possibile. Questa è una emergenza europea.

Vista da Parigi, la frattura fra Italia e Francia sulla Libia è destinata a sanarsi?

Avendo forti interessi in Libia l’Italia ha avuto giustamente una posizione di grande determinazione e prudenza, per ragioni storiche e geopolitiche. Dall’altra parte c’è un Paese, la Francia, che si è spinta in un’avventura militare non solo per ragioni internazionali ma anche per delle cause legate alla politica interna, al bassissimo livello di consenso di Sarkozy, il quale attraverso una operazione del genere ha cercato di riconquistare voti. In realtà la Francia ha dimostrato di avere un comportamento molto tradizionale con l’Italia: Parigi pensa a Roma solo quando ha problemi con Berlino; questa volta non ha pensato al vostro Paese perché immaginava quale sarebbe stata la prudenza diplomatica dell’Italia. Tutto questo ha suscitato tensioni fortissime e ancora una volta abbiamo avuto una dimostrazione delle divisioni dell’Europa, dell’incapacità di avere una politica comune europea, con i francesi che hanno mollato il loro partner economico storico, Berlino, per ritrovare una intesa con Londra con cui aveva già un forte accordo sui temi della difesa.  In ogni caso, quella della Francia mi sembra una posizione un po’ avventurista perché non è chiaro come usciremo dalla guerra in Libia.

Era meglio lasciare Gheddafi al suo posto?

Dovevamo fare qualcosa per salvare Bengasi, e non c’erano altre soluzioni se non intervenire. Probabilmente abbiamo scelto il male minore. La storia dirà chi aveva ragione.