L’incriminazione di Bashir serve a poco, ma è un atto di coraggio
18 Luglio 2008
Nella regione del Darfur, gli scontri sanguinosi che dal 1985 a oggi hanno visto contrapporsi la locale maggioranza nera alla minoranza araba – che è maggioranza nel resto del Sudan – non costituiscono una novità. Nel corso degli ultimi anni qualcosa però è cambiato: dal 2003 la popolazione ha deciso di non subire più passivamente in silenzio, e di reagire alle feroci scorribande dei Janjaweed costituendo gruppi armati di resistenza come il Movimento per la Liberazione Popolare del Sudan.
Le uccisioni sistematiche, con l’etnia come unico elemento discriminante (per le quali è dunque appropriato parlare di genocidio), sono tuttavia proseguite, sempre più feroci. L’ONU, l’Unione Africana, la Nuova Coalizione Araba, le ONG – nessuno sembra essere in grado di fermare questo massacro che riapre le ferite dell’Occidente nel ricordo di due dei suoi più grandi e recenti fallimenti umanitari: il Rwanda e la Bosnia.
Nel tentativo di scongiurare il protrarsi del genocidio, l’ONU ha dunque deciso di intervenire: prima con l’UNMIS, la missione del 2005 che doveva far garantire il rispetto dell’accordo di pace tra il governo del Sudan e il Movimento di Liberazione Popolare; poi con la missione di pace UNAMID, che nel 2007 si è fusa con l’AMIS dell’Unione Africana, inizialmente responsabile di ridurre le ostilità e distribuire gli aiuti umanitari. Infine, visti i risultati fallimentari di entrambe, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha inoltrato alla Corte Penale Internazionale (ICC) una lista di 51 nomi sui quali indagare per l’accusa di crimini contro l’umanità, tra i quali il Ministro sudanese degli Affari Umanitari Ahmed Haroun ed il capo delle milizie Janjaweed Ali Muhammad Ali Abd al-Rahman (conosciuto anche con il nome di Ali Kushayb), così come alcuni membri della resistenza.
Dalla sede dell’Aia, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, ha accolto il mandato e svolto accuratamente le indagini. Tuttavia, nonostante le prove indichino chiaramente i mandanti delle operazioni di pulizia etnica, e dimostrino le responsabilità delle autorità di Khartoum nel genocidio del Darfur, Il Presidente Omar al-Bashir ha negato qualsiasi tipo di coinvolgimento e di sostegno al Tribunale Penale Internazionale, deliberando l’invalidità del provvedimento dell’ICC che chiede di consegnare i responsabili al Tribunale dell’Aia affinchè vengano sottoposti a regolare processo. Sembra a questo punto lecito chiedersi qual è l’utilità e il senso di una Corte Penale Internazionale che non può far rispettare i propri provvedimenti, nonché quale ruolo hanno, o meglio dovrebbero avere, le Nazioni Unite in tutto questo.
In primo luogo, è bene ricordare che il rapporto tra l’ICC e l’ONU non è affatto di dipendenza diretta, come talvolta erratamente si crede. Dopo la Seconda guerra mondiale, e più precisamente nel novembre 1947, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite incaricò la propria Commissione di Diritto Internazionale (ILC) di rielaborare i principi che avevano regolato le sentenze del Tribunale di Norimberga e di stilare un elenco di crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità. Tuttavia dal 1998, data in cui venne ufficialmente istituito Tribunale Penale Internazionale Permanente (il cui Statuto entrò in vigore il 1 luglio 2002), la Corte Penale con sede ufficiale a l’Aia ha potuto seguire un cammino pressochè autonomo in merito all’interpretazione e all’applicazione delle leggi di guerra. Nel caso specifico del Darfur dunque, l’ICC ha dunque indubbiamente agito su direttive dell’ONU (con la quale ha infatti un legame forte), seppur mantenendo totale autonomia su come gestire le proprie indagini e formulare le proprie conclusioni.
Certamente, come ha scritto Anna Bono su l’Occidentale, è discutibile l’efficacia della delibera dell’ICC riguardo al Darfur, che resta puramente formale: si tratta di una dichiarazione di presunta colpevolezza giuridica per i responsabili del genocidio, che nel concreto però non vincola in alcun modo il Sudan a sottomettersi al giudizio dell’ICC né implica l’intervento dell’ONU per assicurare i presunti criminali alla giustizia – ONU che tra l’altro si è sempre dimostrata quantomeno riluttante all’azione, per ricorrere ad un eufemismo. In tale senso, viene sottolineata quella che ad oggi costituisce la mancanza più grave ed evidente di un’istituzione come l’ICC: l’impossibilità di dare forza alla legge, facendo sì che lo Statuto del Tribunale Permanente – sottoscritto solo da 104 paesi, poco più della metà degli Stati membri dell’ONU – sia applicato davvero “internazionalmente”, o almeno alle Nazioni Unite nella loro interezza. Poiché le delibere del Tribunale Internazionale dell’Aia non valgono per il Sudan (il quale difatti, nonostante appartenga all’ONU, non ha sottoscritto lo Statuto di Roma – come d’altronde nemmeno gli Stati Uniti, la Russia e la Cina), la conseguenza è che il Tribunale Penale Internazionale non dispone a questo punto di un organismo realmente rappresentativo che le faccia rispettare.
Tuttavia, nel caso del Sudan l’importanza della presa di posizione della Corte Penale Internazionale in merito al genocidio in Darfur non è stata finora sufficientemente evidenziata. La condanna ufficiale ha poca rilevanza concreta, questo è vero; ma le pressioni diplomatiche sono meglio del silenzio, specialmente se vengono da un organismo internazionale che non ha concretamente altre opportunità per agire. Per questo la richiesta ufficiale di Luis Moreno-Ocampo al governo sudanese di consegnare i responsabili del genocidio in Darfur all’ICC affinchè vengano sottoposti a regolare processo è da apprezzare, non da sottovalutare in base a mere constatazoni di efficacia. Il realismo politico è importante, ma non deve portare a soprassedere ai valori su cui l’Occidente è fondato.
I dossier, le testimonianze, le immagini raccolte meticolosamente da Ocampo e dai suoi collaboratori nel corso di due anni di ricerche, combattendo le reticenze, le differenze culturali, i tentativi del governo sudanese di eliminare con la violenza e le uccisioni tutte le prove, non solo hanno dimostrato come persino il Presidente Omar al-Bashir sia direttamente collegato alla pulizia etnica che terrorizza la popolazione; ma hanno dato voce a coloro che fino ad ora erano rimasti nell’ombra, schiacciati da una crudeltà che in Darfur è sempre più potente ed istituzionalizzata. Le ricerche dell’ICC hanno portato alla luce qualcosa che tutti sapevano, certo; ma di cui mancavano ancora le prove concrete.
Parte dell’Occidente non ha esitato a bollare il lavoro di Ocampo come inutile, scontato o persino dannoso (le accuse sono di aver compromesso la missione di pace – missione che, sembra tuttavia opportuno ricordare, non stava esattamente portando ad una normalizzazione della situazione in Darfur, e neppure a condizioni che alleviassero le condizioni dei profughi o permettessero ai contingenti di operare in maggiore sicurezza). L’ICC ha ribadito invece inequivocabilmente attraverso le sue dichiarazioni che i crimini contro l’umanità devono venire apertamente condannati, al di là di qualsiasi realistica possibilità di dare seguito alle denunce; e che anche se la colpevolezza è evidente, giustizia significa contrapporre la prove all’arbitrarietà, la democrazia ai dittatori, la giustizia alla prepotenza.
Per questo, di fronte alla sospensione a tempo indefinito da parte delle Nazioni Unite della missione di pace UNAMID lo scorso 14 luglio “per timore di ritorsioni e violenze”, l’intimazione al governo sudanese a consegnare i reponsabili del genocidio all’ICC è un atto di coraggio: una chiara denuncia da parte della Corte Penale Internazionale, di fronte alle titubanze, agli interessi di parte ed all’immensa burocrazia nella quale annaspa oggi l’ONU, che ribadisce in maniera chiara ed inequivocabile quali sono i valori dell’Occidente e come dovrebbero essere difesi.