L’indecisione dell’Occidente lascia impunita Damasco
28 Maggio 2007
di redazione
Se l’Iran è un motore di terrorismo e di rischio perenne per il mondo intero, la Siria è il grande mestatore di una situazione sempre sull’orlo dell’esplosione. Teheran tiene sulla griglia il mondo intero, agitando la frusta del terrore mentre prepara l’atomica, e Damasco le porge la palla, passa le sue armi agli hezbollah, favorisce la familiarità con Hamas (il cui capo, Khaled Mashaal, siede a Damasco), introduce i suoi uomini in Iraq e adesso sta dimostrando, con gli scontri micidiali in corso nei campi profughi palestinesi fra i suoi amici di Fatah al Islam (legati anche a Al Qaeda) e l’esercito libanese, la sua capacità di portare il Paese che considera di sua proprietà (il Libano) alla disperazione e all’anarchia, usando sia il fronte sciita (gli hezbollah) che quello sunnita. Assad ha un doppio interesse nello spingere entrambi i fronti in guerra contro il governo Siniora: evitare il processo internazionale per l’assassinio di Rafik Hariri e riprendersi il paese dei cedri che considera parte integrante della sua terra.
Il comportamento della Siria dunque è chiarissimo ed è contrassegnato dalla presenza delle maggiori organizzazioni terroriste a Damasco, dal suo ruolo attivo in Iraq, da un riarmo massiccio e differenziato, da azioni di supporto per gli Hezbollah. Sull’altro versante, invece, vediamo un comportamento americano simile a un taboga, in cui i su e i giù si alternano: gli incontri con l’opposizione siriana ma anche con il governo, la spinta del congresso verso il “regime change” ma anche la visita di Nancy Pelosi ad Assad, la condanna della speaker della Camera da parte della Casa Bianca seguita tuttavia dall’incontro di Condi Rice con rappresentanti di Damasco, l’incoraggiamento degli Stati Uniti a Israele per un’apertura al dialogo con la Siria ma anche il rifornimento di armi all’esercito libanese per combattere i protetti del regime alawita… Tutto questo rivela la difficoltà americana ed europea ad accettare la dura realtà, ovvero che Assad ha ricavato dai comportamenti occidentali un senso di impunità che rischia in futuro di portare al rovesciamento del governo libanese e forse quindi a una futura guerra, come dimostra l’analisi di Barry Rubin che segue.
Gli Usa dimenticano che con la Siria il dialogo è inutile
In Medio Oriente la violenza non è il risultato di mancanza di dialogo, ma uno strumento per ottenere dei benefici a livello politico. La prova più evidente è il modo con cui la Siria riesce ad usare la violenza e il terrorismo per promuovere i suoi interessi. Nessun tipo di dialogo può cambiare questo dato di fatto.
Ora la Siria sta usando un gruppo di miliziani palestinesi per provocare la guerra in Libano, esattamente come l’anno scorso utilizzò un’altra organizzazione libanese a lei affiliata, Hezbollah, per combattere Israele. Il messaggio del governo siriano è semplice: il Libano non conoscerà pace finché non tornerà ad essere un nostro stato satellite.
In due anni, i leader libanesi indipendenti sono stati vittima di ben 15 attentati di stampo terroristico. Il più famoso è l’attacco che nel febbraio 2005 ha causato la morte del popolare ex-Primo Ministro Rafiq Hariri e di altre 22 persone presenti sul luogo.
Come risposta, le Nazioni Unite hanno dato il via ad un’indagine internazionale che ha prodotto rapporti provvisori in cui la Siria viene accusata dell’omicidio. In alcuni rapporti riservati, si fa persino il nome di parenti stretti di Bashar al Assad. La scorsa settimana, Stati Uniti, Francia e Inghilterra hanno presentato all’Onu un progetto di risoluzione per istituire un tribunale internazionale che processi gli assassini di Hariri. Dal momento che l’istituzione del tribunale richiede la cooperazione di Beirut, la Siria deve assicurarsi che il parlamento libanese ponga il veto sul piano. Come all’improvviso, due bombe esplodono nella capitale e un gruppo islamista, con sede in un campo profughi palestinesi e appoggiato da Damasco, fa scoppiare una rivolta contro il governo centrale.
La gente recepisce il messaggio: infastidite la Siria e vi farete male. Data la situazione in Libano, se si volesse andare avanti con il tribunale – dichiara il diplomatico sudafricano Dumisani Kumalo – “bisognerebbe farsi analizzare il cervello. All’inizio volevamo procedere con calma. Ora ci muoveremo con ancora più cautela”.
La cosa più difficile da capire, è come il regime riesce a trarre benefici da una strategia tanto radicale in politica interna. L’economia è un disastro, c’è poca libertà e il paese è dominato da una ristretta minoranza alawita storicamente secolare e non propriamente musulmana. Eppure, il regime è riuscito finora a conservare il potere, nonostante abbia fallito in ogni ambito, come d’altronde accade in altre dittature mediorientali.
Da quando, nel 2006, Bashar ha preso il potere in seguito alla morte del padre Hafez, ha risposto con successo alla sfida di mantenere le leve del comando. Manda terroristi contro Iraq, Israele, Libano e addirittura contro i militari statunitensi, ma nessuno indirizza la sua reazione verso di lui. All’interno, il regime s’islamizza sempre di più ed all’esterno è il più grande sostenitore dei gruppi islamici radicali della regione.
Per i propri interessi e per la propria sopravvivenza, i leader siriani hanno bisogno dell’anti-americanismo e del conflitto arabo-israeliano per mobilitare il consenso e distrarre dai loro fallimenti. Ad esempio, quando Bashar è salito al potere, il vicepresidente Abd Halim Khaddam ha risposto a i siriani che chiedevano riforme che nulla sarebbe potuto cambiare finché Israele avesse mantenuto il controllo delle alture del Golan. In realtà, il ritiro d’Israele sarebbe disastroso per il regime, poiché la pace con lo stato ebraico non permetterebbe più di ricorrere a questa scusa e, soprattutto, darebbe vita ad una rivendicazione di massa di democrazia, prosperità e riforme.
Bashar ha addirittura lanciato una nuova dottrina, chiamata “Resistenza”, che mescola nazionalismo arabo e islamismo. L’obiettivo dell’Occidente – accusa – è di schiavizzare gli arabi. L’errore commesso dagli altri stati arabi è stato quello di abbandonare la guerra. “Il mondo non si preoccuperà di noi, dei nostri interessi, delle nostre sensazioni e dei nostri diritti fino a quando non diventeremo potenti”, e la vittoria richiede “avventura e sfrenatezza”. Chi dissente è un “mercenario politico” e un “parassita”.
Questo radicalismo obbligatorio fa in modo che la Siria interpreti ogni concessione occidentale e ogni tentativo di creare un rapporto di fiducia come segni di resa, come prove del successo della sua strategia. Anni di dialogo e numerose visite diplomatiche non hanno convinto la Siria a smettere di dare ospitalità ai maggiori esponenti del terrorismo islamico, tantomeno hanno portato ad un cambiamento di linea politica.
Anwar al-Bunni, un dissidente democratico, nel 2003 ha spiegato come l’unica cosa a trattenere ancora il regime fosse la paura dell’America. È solo “grazie a questo timore che noi, i riformisti, abbiamo ancora qualche chance”. La sua affermazione è stata confermata quando i membri del Congresso statunitense si sono stretti intorno a Damasco con parole di apprezzamento e distensione. In quel momento, infatti, al-Bunni è stato condannato sotto false imputazioni a cinque anni di prigione.
Essere “carini” con la Siria non porterà da nessuna parte perché il regime prospera sul conflitto e le sue richieste – inclusa quella di ri-colonizzare il Libano – sono troppo incompatibili con gli interessi occidentali per essere accettate. Gli Stati Uniti dovrebbero trattare il regime siriano come un avversario determinato, i cui interessi sono opposti a quelli dell’America, indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca.
Barry Rubin autore di La verità sulla Siria (“The truth about Syria”, Palgrave-Macmillan), direttore del centro studi GLORIA (Global Research in International Affairs) ed editore della rivista MERIA (Middle East Review of International Affairs).