L’India vieta i matrimoni misti e fa un brutto passo indietro

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L’India vieta i matrimoni misti e fa un brutto passo indietro

12 Dicembre 2008

La Corte Suprema indiana ha dichiarato nullo un matrimonio tra una indù e un cristiano appellandosi all’Hindu Marriage Act, la legge che regola le unioni tra i fedeli dell’induismo, tagliando fuori i musulmani, i cristiani, i parsi e gli ebrei. La coppia protagonista di questa storia si era sposata nel 1996 con rito indù. Il marito aveva fatto credere alla moglie di essere induista, pur essendo cristiano, e il matrimonio era stato registrato seguendo la legislazione corrente. Quando la donna aveva scoperto di essere stata presa in giro aveva richiesto l’annullamento e oggi, a quattro anni di distanza dalla separazione, la Corte Suprema ha dichiarato che "il matrimonio tra un indù e un cristiano è nullo ab initio". 

Le leggi che in India regolano il matrimonio sono due: l’Hindu  Marriage Act, appunto, e lo Special Marriage Act. La prima, emanata nel 1955 sotto il governo di Nehru e fortemente voluta da Ghandi, costituì senz’altro un passo avanti nella storia del diritto indiano. Dopo la conquista dell’indipendenza, il governo aveva presentato al Parlamento un progetto di codice legislativo marcatamente induista che regolava unitariamente l’intero diritto di famiglia e delle successioni. Ma una serie di forti critiche costrinsero l’esecutivo a ritirare il progetto limitandosi ad approvare singoli disegni di legge per ogni particolare questione.

Con l’Hindu Marriage Act il diritto indù fu aggiornato abolendo una serie di pregiudizi religiosi e legati alla divisione in caste della popolazione. Fu una legge nata sulla spinta progressiva del movimento gandhiano che voleva porre un freno ai matrimoni combinati ed emanciparsi dalla tradizione che risaliva ai Veda e al Mahabharata. I matrimoni misti continuarono a essere regolati dallo Special Marriage Act, un atto di diritto civile. Il matrimonio tra persone di fedi diverse veniva celebrato da un ufficiale dello stato ed era valido nell’intero territorio indiano, eccetto che negli stati del Jammu e del Kashmir.

La nuova sentenza della Corte suprema di per sé non è un fatto eclatante, anche in virtù del fatto che lo sposo avrebbe nascosto alla moglie di essere cristiano. Ma al di là del singolo caso quello che preoccupa è l’involuzione che il sistema giuridico indiano sta subendo negli ultimi tempi. Sotto il dominio coloniale britannico il diritto induista aveva preso le distanze dal dharmásastra, la sofisticata “dottrina del comportamento dovuto”. Gli inglesi abrogarono alcune regole particolarmente odiose come il divieto per una vedova di risposarsi, oppure il principio in base al quale un indù che avesse abiurato la sua fede, o fosse stato espulso dalla propria casta, avrebbe perso anche il suo patrimonio.

Nel diritto indù dell’epoca c’erano numerose lacune, colmate dalla discrezione dei giudici britannici che agivano in base alla regola justice, equity and good conscience ispirata alla "Common Law". Con il passare del tempo questa prassi ha generato un originale sistema legislativo anglo-indiano che però, con la decisione della Corte suprema, sembra essere stato intaccato.

L’annullamento del matrimonio crea un precedente significativo sia da un punto di vista giuridico che per le sue conseguenze. In India ci sono circa 20 milioni di cristiani su una popolazione di oltre un miliardo di persone che per l’80 per cento è induista. Nell’Orissa, uno degli stati orientali dell’India, per i cristiani non c’è pace neppure nei campi dei rifugiati. Il fondamentalismo induista si batte per contrastare le conversioni al cristianesimo, la diffusione dell’istruzione cattolica e l’attività missionaria. Vietare i matrimoni misti è una vittoria per chi vuole separare le due civiltà. 

Grazie alla presenza coloniale britannica il diritto indiano riuscì a compiere notevoli passi verso un sistema laico. E’ stato un bene per un Paese fatto di centinaia di etnie, lingue, religioni e culture diverse, che arricchiscono l’India e ne costituiscono da sempre il punto di forza. L’esistenza di un diritto specifico per ogni religione, invece, è in contraddizione con il principio base della Costituzione Indiana che ha per fine quello di “assicurare a tutti i  cittadini la giustizia sociale, economica e politica; la libertà di pensiero, espressione, credo, fede e culto; l’uguaglianza di condizione e di opportunità; e promuovere fra tutti fraternità, garantendo la dignità ai singoli individui e l’unità nazionale”.

Ritornare verso un diritto specifico, che sia declinato per religione, razza o luogo geografico, significherebbe non solo fare un passo indietro nel processo evolutivo della democrazia indiana ma anche gettare nel caos il sistema giuridico e il funzionamento dei tribunali, costringendo lo stato a creare tanti apparati quante sono le diversità indiane. Il danno è soprattutto culturale. Le istituzioni non sembrano interessate a seguire un percorso unitario e accentuano le diversità alimentando il settarismo etnico e incoraggiando l’integralismo e l’odio religioso.