L’industria di Mani Pulite e la memoria corta dei grandi moralizzatori
21 Febbraio 2012
Nel 2000 uscì un libro, "L’industria dell’Olocausto", destinato a scatenare una durissima controversia nel mondo accademico. L’autore, Norman Finkelstein, docente universitario e figlio di sopravvissuti all’Olocausto, sosteneva una tesi inaccettabile (gli ebrei americani avrebbero sfruttato la memoria della shoah per ottenere dei vantaggi politici ed economici), ma la conseguenza di quella ricerca è stata riaprire la discussione sui modi in cui la cultura popolare diventa "culto". Quali sono cioè i modelli di volgarizzazione insiti nella cultura di massa che si riproducono attraverso meccanismi di ripetitività e di schematizzazione, tramite i processi di semplificazione messi in moto da quella corazzata che prende il nome di industria culturale.
Oggi in Italia si potrebbe parlare di "industria della memoria" a proposito di Mani Pulite, in concomitanza con le celebrazioni del ventennale di quella rivoluzione giudiziaria che, prendendo le mosse dall’arresto di Mario Chiesa, finì per decapitare il sistema politico della Prima Repubblica. Anche in questo caso, l’industria culturale ci ha offerto una visione univoca e senza chiaroscuri di quella stagione: il Corriere della Sera manda in edicola due volumi "1992-2012. Mani Pulite, l’inchiesta che ha cambiato l’Italia". Piercamillo Davigo, oggi giudice della Corte di Cassazione, si divide tra una puntata di "Otto e mezzo" e la prefazione della riedizione di un classico della saggistica giustizialista, "Mani Pulite. La vera storia, 20 anni dopo" (Chiare Lettere 2012), del trio Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto. Gherardo Colombo, attuale presidente di Garzanti Libri, va in vetrina con "Farla franca" (Longanesi 2012), un libro dal titolo che si commenta da solo, e fa la sua ospitata a "L’infedele" di Gad Lerner.
Per non dire del "peso massimo" di quel circuito che coinvolge cultura, politica e giustizia: Antonio Di Pietro. Costui il 18 febbraio scorso, al Teatro di Milano, si è commosso perché sarebbe perseguitato "peggio di Berlusconi. A distanza di vent’anni devo ancora spendere il 70% del mio tempo a difendere la memoria di Mani Pulite". La memoria, appunto. Dovremmo chiederci chi la fa, come la si costruisce, su quali basi, da che punto di vista, in virtù di quali interessi. In questo ventennio abbiamo assistito al montare sempre più dilagante e travolgente di un pensiero unico, dalla forza impressionante, che ricostruiva univocamente quanto accaduto durante la stagione delle monetine e delle manette. Giornalisti di parte, schierati, faziosi, e per questo poco obiettivi, hanno prodotto pagine e pagine di epica giustizialista. Nel 1906, il presidente americano Roosevelt bollò questi reporter come dei muckraker (letteralmente, "rimestatori nel letame"), definizione che si potrebbe facilmente prendere in prestito, anche se i reporter de noantri non hanno certo il piglio di un Upton Sinclair.
Ci sono i crociati del pensiero unico, dunque, ma anche gli eretici, come si autodefinisce Tiziana Maiolo, che abbiamo raggiunto per un’intervista (anche lei ha pubblicato un libro su "Tangentopoli", Rubbettino 2012): "Oggi Antonio Di Pietro piange ma non si è mai fatto problemi quando ordinava perquisizioni all’alba nelle case degli indagati. Lui ha sempre fatto due pesi, due misure". Come quando l’allora PM diede un appuntamento a Primo Greganti: "Avevamo fissato un incontro – ricorda il Compagno G. – era da 15 giorni che gli chiedevo di ricevermi. Finalmente ci accordiamo per le undici al Palazzo di Giustizia e lui che fa? Mi manda i poliziotti alle 4 del mattino a casa per arrestarmi". I metodi di Mani Pulite erano quelli e Di Pietro non sembra averli mai negati. Oppure la storia di Tiziana Parenti, anche lei nel pool di Borrelli, "la cui immagine è svanita da ogni foto ricordo dell’epoca", aggiunge Maiolo, come le inchieste sulle coop rosse.
Ovviamente nel nostro Paese – tutto il mondo è Paese – ognuno ha la sua parrocchia, le sue idee, qualcosa da denunciare e qualcosa da difendere. Quando le chiediamo dell’allarme lanciato dalla Corte dei Conti sul fenomeno della corruzione negli enti pubblici, Maiolo spiega che sì, oggi la corruzione sembra toccare soprattutto le amministrazioni pubbliche, ma "si tratta di casi singoli, l’epoca di Mani Pulite è finita, Tangentopoli non esiste più, come il finanziamento illecito ai partiti". E un editoriale di Ferruccio De Bortoli apparso sul Corsera del 15 febbraio sembra darle ragione: "La corruzione è diventata individuale, trasversale, minuta". Tangentopoli ebbe il merito di "sollevare il velo sull’Italia del malaffare – scrive De Bortoli – ma gli errori e gli eccessi non furono pochi".
I punti oscuri, le ragioni e gli odii, i processi e il "sangue dei vinti" (43 suicidi tra gli indagati), non sempre hanno percorso fino in fondo le pagine assemblate dai muckraker, quei piccoli dottor Frankenstein dediti alla ricucitura di atti giudiziari (pubblici, per carità…), sempre schierati dalla parte dei PM, e spalleggiati dal fiuto di un’imponente industria del marketing culturale. Memorie, quindi. Egemoniche o minoritarie. La Storia è sempre fatta così.
Così fa bene Giuliano Ferrara a scrivere che "la Repubblica democraticamente corrotta ha lasciato il posto a un falso Paese delle virtù, un luogo di oppressione culturale, di pulsioni etiche ossessive, di scemenze punitive sempre più diffuse che alla fine sono diventate una specie di falso senso comune", ed è vero che se la politica ha le sue colpe anche chi si erge a moralizzatore ha i suoi scheletri nell’armadio, ma se c’è qualcosa che davvero è rimasto incompiuto in questo ventennio, qualcosa che avrebbe dovuto essere risolto ed è rimasto così com’è, una lezione da trarre dopo la bufera di Mani Pulite, è la mancata riforma della giustizia (penale, a quella civile ci ha pensato l’ex guardiasigilli Alfano): "Quella riforma – conclude Maiolo – deve passare da una riforma costituzionale. Bisogna ripartire dalla Bicamerale e dalla Bozza Boato", per arrivare ad un giusto processo, alla separazione delle carriere e dei ruoli tra accusa e giudizio, come pure bisognerebbe impedire ai magistrati che hanno ricoperto incarichi pubblici, e sono diventati sindaci piuttosto che parlamentari, di tornare ad esercitare la loro professione una volta trascorso il mandato.
Riuscirà l’attuale ministro della giustizia a muoversi in questa direzione, per esempio risolvendo il rompicapo dell’emendamento presentato dalla Lega Nord sulla responsabilità civile dei magistrati, e ad affermarne il principio, dopo che è passato alla Camera a larga maggioranza con voto a scrutinio segreto ed ora è in attesa di essere votato al Senato? Staremo a vedere. Per adesso dobbiamo accontentarci delle celebrazioni, delle rievocazioni e della "industria di Mani Pulite".