L’ineluttabile dicotomia umana tra pubblico e privato

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L’ineluttabile dicotomia umana tra pubblico e privato

L’ineluttabile dicotomia umana tra pubblico e privato

06 Agosto 2012

Su Il Giornale del 1° agosto scorso, Dino Cofrancesco chiede ironicamente a “Critica liberale” se l’enorme debito pubblico che ha condotto l’Italia al collasso sia opera dal neoliberalismo e osserva che, se per il liberalismo classico “pubblico” non significa necessariamente dannoso, “privato” non ha mai significato “virtuoso”.

Cofrancesco ricorda “La favola delle api” di Bernard de Mandeville, un poemetto satirico dei primi del ‘700, dove vizi privati come il lusso e la vanità diventano pubbliche virtù. L’alveare virtuoso genera invece disoccupazione e finisce per autodistruggersi. Non ci sono più litigi e gli avvocati rimangono senza lavoro, come i fabbri, perché non c’è più bisogno di serrature. Chiudono le industrie e i negozi di stoffe costose, i gioiellieri, perché il lusso è bandito. Decade l’arte e la moda, perché nella società virtuosa è bandito il superfluo. Spariscono golosi e crapuloni, tabacco e vino proibiti, e partono i medici. Si elimina l’esercito perché l’alveare virtuoso decide di combattere solo se attaccato. Finisce che l’alveare, ormai abitato da api disoccupate, viene attaccato dai nemici e le povere api sconfitte sono costrette ad abbandonare l’alveare virtuoso e a migrare nel cavo di un altro albero.

Il sottotitolo della Favola delle api è appunto vizi privati e pubbliche virtù. Mandeville, un medico olandese immigrato a Londra, che aveva scritto un trattato sulle malattie nervose, credeva che il self-love e il desiderio di essere apprezzato e lodato siano due pulsioni innate – oggi diremmo genetiche – essenziali alla società e al benessere.

Fino a Hegel, per il quale l’uomo è pura autocoscienza, ente spirituale, per secoli antropologia e filosofia hanno camminato insieme ed ogni grande filosofo ha basato la teoria politica su una concezione dell’uomo. Per molti antropologi del ‘900, contrari all’opposizione di natura e cultura dei secoli passati, la natura umana è diventata, come ha scritto Edgard Morin, un residuo informe, inerte e monotono.

L’antropologia del ‘900 ha preferito riportare l’uomo e la donna nell’isola felice di Adamo ed Eva, mentre la filosofia politica ha sognato società perfette, dove è la “cultura” a plasmare l’uomo, convinta sia la società a creare l’uomo. Però, come abbiamo visto alle Olimpiadi di Londra, basta una cinesina nuoti più veloce del campione americano per essere subito accusata di essere geneticamente manipolata e la natura ritorna prepotentemente alla ribalta. I grandi filosofi che da Aristotele a Hobbes a Rousseau fondavano sull’interpretazione della natura umana le teorie politiche, forse non sono da buttare.

Alla base del liberalismo anglosassone c’è la filosofia di Hobbes, che si oppose alla naturale socialità degli uomini di Aristotele, a cui perviene anche Rousseau nella società teorizzata nel Contratto Sociale, nonostante fosse partito dal selvaggio isolato, buono e inoffensivo come un angelo, che degenera quando entra nella società. Ad Aristotele, per il quale l’uomo è un animale sociale per il quale è naturale vivere in una comunità politica ed operare per il sommo bene di essa, Hobbes replica che gli uomini non sono api e formiche. Prive della parola, mentre per gli uomini il linguaggio è un’arma ben più affilata dei denti e delle unghie degli animali, le api e le formiche non sono in competizione come gli uomini, che passano il tempo a combattersi con la penna e con la spada per stabilire cosa sia il torto e il giusto e dimostrare di essere più capaci di governare la cosa pubblica.

Per le api e le formiche il bene pubblico non differisce dal privato, e, inclini al bene privato, procurano con ciò il bene comune. Per gli uomini non è così, perché la gioia per l’uomo consiste nel paragonarsi agli altri uomini e quindi non può gustare se non ciò che lo rende più importante degli altri. Per questo, chi occupa una carica pubblica tende a favorire gli amici, per aumentare il proprio potere rispetto ad altri e diventare più autorevole. Soprattutto, l’accordo tra le api e le formiche è naturale, mentre per gli uomini il contratto che li spinge a vivere insieme è artificiale e accettato solo per paura di essere uccisi senza uno stato che li difenda. Hobbes aveva presente le lotte tra i membri del parlamento inglese per impadronirsi dei monopoli (il più ambito era quello che aveva in mano il mercato dei panni di lana): i complotti, le delazioni, le accuse di corruzione erano all’ordine del giorno.

Per questo, per Hobbes, gli uomini e le donne non sono affatto naturalmente sociali: per essi conta soltanto il proprio self-interest o self-love e non cambiano natura neppure quando entrano nello stato, perché continuano a perseguire il proprio interesse. Non solo i mercanti pensano all’interesse, ma anche gli scienziati: lo scienziato, quando intravede una grande scoperta scientifica, è simile al giocatore, che scopre di avere in mano una carta vincente. Una scoperta scientifica significa onore, fama, ricchezza. La felicità è per l’uomo un continuo successo, ottenere di volta in volta ciò che desidera e per questo la tranquillità perpetua significa la fine della vita.

Gli uomini sono uguali perché desiderano le stesse cose: per questo si fanno la guerra con le parole e con la spada e i filosofi politici che si atteggiano a saggi e virtuosi, invocando il sommo bene, come Aristotele, lo fanno nel proprio interesse. Dando la stoccata finale ad Aristotele, per il quale alcuni uomini sono nati per natura per governare e altri per lavorare, Hobbes conclude che nessun uomo sarebbe così stupido da entrare in uno stato che non gli assicuri almeno formalmente l’uguaglianza.

Per Elias Canetti, Hobbes toglie la maschera al potere, perché lo considera l’elemento centrale di ogni comportamento umano, anche di chi predica la rivoluzione e la virtù. Toglie la maschera all’ipocrisia e per questo è considerato un rompiscatole.