L’Inghilterra ha molto da insegnarci ma non è tutto oro ciò che luccica
26 Settembre 2010
di Daniela Coli
Luigi Albertini aveva una tale stima per l’Inghilterra da costruire il Corriere sull’esempio del Times, di cui copiò i mobili metro per metro, e il Corriere è considerato il giornale italiano più “inglese”, per l’ammirazione per il Regno Unito e per il tono ovattato, un po’ blasé, mentre il modello originario è aggressivo e diretto. Quando si leggono articoli sull’Inghilterra sul Corriere accade di pensare al medico indiano di Forster in Passage to India. Il dottor Aziz ha un’ammirazione sconfinata per l’Inghilterra e questo gli procurerà non pochi guai e lo condurrà a riscoprire l’identità indiana, quando sarà accusato ingiustamente di tentato stupro di una ragazza britannica. L’Inghilterra ammirata per la modernità, l’equilibrio, l’imparzialità, mostrerà una faccia diversa in tribunale contro Aziz. Le due facce coesistono. La compostezza con cui i londinesi reagirono all’attacco del 7 luglio, la fermezza e la coesione, la disciplina con cui i britannici accettano cambiamenti sociali drastici e severi – si pensi alla cura Thatcher –, è anche il risultato della durezza a cui sono abituati da secoli.
L’ammirazione per una metropoli come Londra dove furti e scippi sono quasi inesistenti – e le case non hanno porte blindate, né finestre con persiane, serrande e scuri – si deve al Black Act, una legge approvata dal parlamento inglese nel 1723 durante il regno di Giorgio di Hannover e attiva fino al 1827, per la quale si poteva all’inizio impiccare chi girava armato, uccideva un cervo, rompeva rami di un albero nella foreste e nelle zone di caccia reali. Fu chiamato Black Act, perché gli intrusi nelle reali foreste si annerivano la faccia col carbone. La legge fu poi estesa a qualsiasi parco o proprietà terriera e applicata anche a chi faceva danni al bestiame, alle macchine, ai negozi, alle case. Si poteva essere impiccati senza processo, se denunciati da un testimone rispettabile, per avere pescato o preso una lepre di frodo, rubato un coniglio e anche per avere rubato in un negozio o avere chiesto denaro con una lettera anonima. Soltanto una faccia sporca di carbone poteva condurre al patibolo. Libri come Albion’s fatal tree: crime and society in eighteenth century England e Whigs and Hunters: the origin of the Black Act di Edward Thompson descrivono il terrore degli Hannover. L’Inghilterra degli Hannover, i discendenti di Elizabeth Stuart, la regina d’inverno, come la chiamavano i cattolici dopo la sconfitta boema e l’esilio in Olanda, divenne teatro di esecuzioni spettacolari. Il boia, i rituali dell’impiccagione, la folla in attesa, i corpi dei giustiziati dati ai chirurghi, che potevano rivenderli a pezzi, le lotte di parenti e amici dei condannati per sottrarli allo scempio dopo la morte, creò nell’immaginario britannico il terrore di finire sul patibolo e introdusse un rispetto quasi sacro della proprietà. Il Black Act, opera dei whigs e la repressione dei whiggish Hannover danno qualche idea di come gli inglesi siano diventati un popolo disciplinato.
Se gli italiani sono stati fatti mentre nasceva il socialismo e la proprietà cominciava ad essere considerata un furto, gli inglesi, nonostante abbiano ospitato Marx, immunizzati dal Black Act non sono mai neppure stati sfiorati da questo pensiero. Per il protestantesimo la ricchezza non è negativa, semmai chi è povero è fuori dalla grazia di Dio. Questo aiuta a comprendere come nell’Inghilterra ottocentesca un pastore protestante come Malthus, l’inventore del controllo delle nascite, teorizzasse la castità per i poveri e influenzasse economisti come Ricardo e scienziati come Darwin. Alla base dell’evoluzionismo di Darwin c’è la lotta per l’esistenza: sopravvive soltanto chi si adegua al suo habitat e in questo modo contribuisce a “evolvere” pure la specie, anche se il pesce grande divorerà sempre il piccolo. Questa visione del mondo la ritroviamo in Moll Flanders di Daniel Defoe, puritano e whig, amico di Robert Walpole, il primo ministro whig di Giorgio I e II Hannover. Moll Flanders, l’eroina dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1722, è figlia di una donna che ha rubato tre pezze di tela d’Olanda in un negozio e che per sfuggire all’impiccagione, sceglie la deportazione in America. Anche Moll sarà ladra, prostituta e deportata in Virginia: per sopravvivere e per diventare una “signora” si adatterà all’ambiente. Si sposerà cinque volte (una anche col fratello), e alla fine diventerà ricca, onesta e pentita del suo passato. “Con del denaro in tasca si è a casa propria dappertutto” è la frase chiave del romanzo. Diversamente da madame Bovary, moglie di un medico, Moll Flanders è una povera diavola che vuole arricchirsi per non finire serva. Vuole “evolversi”. Mentre Emma è romantica, sogna un mondo impossibile e s’indebita per uomini che non la amano, finendo in bancarotta e suicida, Moll fa di tutto per avere del denaro in tasca. Quando lo avrà diventerà onesta e si pentirà del passato, appunto si “evolve”.
Dall’inferno si può anche uscire, se si sconta la pena. Charles Dickens, figlio di un impiegato finito in carcere per debiti descrive in Oliver Twist nel 1837, in piena età vittoriana, la povertà, lo sfruttamento dei bambini, i bassifondi londinesi. Secondo di otto figlio, Dickens fu l’unico a non seguire il padre in prigione e lavorò in una fabbrica di lucido da scarpe, finché il padre non fu rilasciato. Perfino Emma Hamilton, la donna dell’eroe nazionale dell’impero britannico, Horatio Nelson, la madre della sua Horatia, andò in prigione per debiti nel 1813 e vi rimase un anno, per morire in miseria a Calais nel 1815. In attesa del secondo figlio quando Nelson partì per guerra, Emma disperata per la morte del bambino, spese tutti i soldi per rimettere a posto l’abitazione modesta che l’ammiraglio aveva comprato. Voleva dare a Nelson una casa grandiosa. Per distrarsi dall’attesa, cominciò a giocare, a spendere troppo, e quando Nelson morì, l’impero britannico non le concesse una pensione, nonostante Horatio lo avesse chiesto per iscritto più volte al governo.
La modernità è la promozione della ricchezza e la povertà perde il valore spirituale che aveva nel Medioevo. Anche nell’Europa non protestante la modernità impone il problema di valorizzare il lavoro e di creare le condizioni per eliminare l’ozio, mentre la carità, la pietà, la compassione, profondamente radicate nelle società cattoliche, devono essere progressivamente eliminate dalla cultura dei ricchi. Nel ‘500 e nel ‘600, in Italia la crisi è particolarmente grave e spinge dalle campagne folle di affamati verso le città, mentre il bisogno urbano di manodopera varia e crea nuovi poveri. È necessario affrontare in mondo nuovo il problema della povertà e si cercano nuove istituzioni per affrontarla, eliminare l’ozio, l’accattonaggio, incoraggiare una disciplina sociale improntata al lavoro. Se nel 1723 in Inghilterra si varerà il Black Act, negli Stati italiani già nella grave crisi del ‘500-‘600 si crea l’Opera dei Mendicanti a Bologna, poi a Cremona, Milano, Torino, Roma, Brescia, Vicenza, Verona, Modena, Venezia, Padova. Firenze è una delle ultime città italiane ad affrontare il problema e solo 60 anni dopo Bologna fonda l’Ospedale dei Mendicanti, seguita da Genova e Napoli. Come ha spiegato alcuni fa Daniela Lombardi in un bel libro sul problema della povertà a Firenze, in questa città la carità delle corporazioni e della chiesa aveva reso meno urgente l’esigenza della reclusione dei poveri. L’esigenza principale dell’Ospedale fiorentino non è però la reclusione, ma l’esclusione dei poveri stranieri dall’internamento. L’Ospedale è l’ultimo rifugio di chi perde il lavoro e non ha più il sostegno della famiglia, come gli ospizi lo sono degli orfani, delle vedove cariche di figli, delle donne malmaritate o dalla vita “scandalosa”.
Insomma, l’Europa cattolica, di fronte alle fluttuazioni del mercato del lavoro, all’indigenza, alla malattia, alla perdita della famiglia, ha la risorsa degli ospizi e dei conventi, dove carità e repressione convivono e dove si tenta di organizzare un’attività produttiva. Non è idilliaco, ma certo meglio dei bassifondi descritti da Dickens e Defoe. Insomma, l’Inghilterra ha molte cose da insegnarci, ma non è tutto oro ciò che luccica.