L’insolita malinconia dei 50 artisti di Saturno

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L’insolita malinconia dei 50 artisti di Saturno

16 Novembre 2008

Lontano dal sole, freddo e oscuro, Saturno, fin dal Medioevo, è stato associato al silenzio contemplativo, alla vita solitaria, al malinconico vagheggiamento. Marsilio Ficino pensava che questo suo essere così cupo potenziasse, in chi è nato sotto quella stella, il genio creativo che, tra l’altro, fin dai tempi di Aristotele era considerato prerogativa dei malinconici. Allo sguardo saturnino è dedicata T2, la seconda Triennale di Torino appena inaugurata e visitabile fino al 1° febbraio negli spazi torinesi della Fondazione Sandretto, della palazzina Promotrice delle Belle Arti situata all’interno del parco Valentino e in quelli del Museo d’Arte contemporanea di Rivoli.

Il titolo Le 50 Lune di Saturno allude ai 50 artisti invitati che nel concept del curatore Daniel Birnbaum rappresentano le declinazioni di un tema, quello della malinconia che l’arte, proprio per i motivi suddetti, ha sempre guardato con attenzione.

La mostra si divide in due parti: la prima è rappresentata da due personali dedicate ad artisti già affermati a livello internazionale, Olafur Eliasson e Paul Chan, che espongono rispettivamente a Rivoli e alla Fondazione Sandretto. La seconda invece raggruppa 48 artisti provenienti da tutto il mondo, che presentano lavori e progetti in molti casi inediti.

Lo dico subito: quello che per molti potrebbe parere un limite concettuale della mostra, ovvero la scelta di un tema così tanto affrontato, potrebbe essere invece la scelta vincente perché rende il tema stesso pressoché inesistente, evitando quel luogo comune per il quale le opere nelle grandi mostre collettive sono solo l’illustrazione di un concetto spesso limitato e univoco del curatore. Saturno e la malinconia che vi soggiace invece rappresentano per loro stessa natura tutto e il contrario di tutto così che in essi cupezza e depressione possono divenire ispirazione e radiosità; passività e negatività, si possono trasformare, talvolta, in fermento e propositività. Questo, insieme al grande spazio (fisico e concettuale) lasciato ad ognuno degli artisti dà agli stessi la possibilità di esprimersi al meglio, perché se è vero che Saturno è il pianeta della creazione artistica è lapalissiano che proprio sotto di esso ci si può sentire liberi di creare.

Così se al Castello di Rivoli Olafur Eliasson dà vita ad un ambiente che attraverso giochi di rifrazioni, crea satelliti di luce che sembrano danzare nel suggestivo spazio della grande stanza al secondo piano, alla Fondazione Sandretto si assiste al paradossale intreccio tra sacralità Biblica e trasgressione De Sadiana, a cui si ispirano le grandi installazioni di Paul Chan. Alludono ad una sessualità esibita anche le immagini del video La bava del diavolo di Keren Cytter nel quale si osservano scene di masturbazione.

Alla forza visiva di queste immagini fa da corrispettivo quella fisica delle spazzole da autolavaggio multicolore di Lara Favaretto. Queste alternano movimento e stasi passando così dalla messa in atto della forza centrifuga alla contemplazione della testimonianza del loro passaggio sulle lastre di metallo che le sorreggono e alla consapevolezza che quell’atto porterà alla consumazione progressiva dell’oggetto.

Un’atmosfera cromaticamente pop e, allo stesso tempo, nostalgica negli effetti che si ritrova anche nella video-performance dell’islandese Ragnar Kjartansson che interpreta il ruolo del cantante anni 50, impegnato a cantare fino allo sfinimento una canzone – Sorrow conquers happyness (la disperazione trionfa sulla felicità)- che sembra la colonna sonora dell’intera mostra. Mentre sembrano cedere alla malinconia pura l’elegante video di Guido Van der Werve e l’installazione di Gerard Byrne che concentra la sua attenzione sul mistero del lago di Lochness.

Una citazione finale per i due artisti più giovani in mostra: Ian Tweedy (1982) le cui 24 copertine di libri disegnate e il wall drawing dialogano tra loro, mostrando la capacità manuale dell’artista nel rendere in immagini le memorie personali eppur plausibilmente condivise e Alberto Tadiello (1983), la cui installazione appare come un murales fatto da cavi elettrici che creano un circuito in cui dei motorini mettono in moto dei piccoli carillon che però producono un suono stridulo. 

Sia pur in un allestimento che non lascia spazio ad accostamenti illuminanti e che talvolta ne presenta alcuni decisamente incomprensibili, questa seconda edizione della Triennale di Torino pare tracciare l’abbandono della caotica frenesia di molte grandi mostre contemporanee e si concentra su una meditazione che viaggia su un sottile limite tra l’assolutamente demodè e il mirabilmente lungimirante. Anche queste l’uno l’opposto dell’altro come Saturno.