L’insostenibile leggerezza della politica

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L’insostenibile leggerezza della politica

L’insostenibile leggerezza della politica

12 Maggio 2020

L’emergenza epidemiologica sta facendo danni difficilmente computabili. Ai tanti, troppi, lutti determinati dalla malattia, si aggiungono i contagi sul piano delle conseguenze economiche. Si tratta dei tanti, forse scampati alla diffusione epidemiologica, ma non a quella delle conseguenze sul mantenimento del lavoro, dell’attività produttiva o professionale esercitata fino a poche settimane prima.

Non è una esclusiva del nostro Paese, ovviamente, e richiede una terapia per niente semplice.

Una delle lezioni di questo primo periodo è che non aiuta il successo una cura (o pretesa tale) che, sebbene accompagnata da adeguata veicolazione mediatica, comunque non sia in grado di tradursi in risultati tangibili. Indipendentemente da ogni opzione ideologica o pre-giudizio – nel senso tecnico – la verifica della effettività del risultato costituisce il test oggettivo della bontà del risultato, se e in quanto utile davvero.

Non sembra, ormai, più dubitabile quanto già nell’immediato era stato – non da tutti, in verità – segnalato, e cioè un insostenibile eccesso di burocrazia, pubblica e privata, strutturalmente inidonea a trasferire con la rapidità dovuta all’economia reale il sostegno o lo stimolo auspicato.

Non appena tale percezione si è fatta più diffusa, ne è derivata una campagna di attacco, se non anche di demonizzazione della categoria sociale dei “burocrati”. Cioè, dobbiamo intendere, di tutti coloro che nelle diverse posizioni e responsabilità si occupano della difficile attività della gestione, necessaria per garantire che quanto sancito a livello normativo non sia relegato alle pur preziose colonne della Gazzetta Ufficiale, ma si proietti sulla vita e sulle esigenze di tutti gli interessati.

In maniera assolutamente condivisibile si è messo in evidenza (“Dagli al burocrate! Ma nessuno si preoccupa di cambiare le norme”, di Gennaro Terracciano) come questo atteggiamento assume contorni preoccupanti nella misura in cui imputa ad una neppure meglio identificata categoria le responsabilità di norme incomplete, contraddittorie e mal scritte, o che costituiscono semplicemente la fonte di ritardi avvertiti come ostacoli inaccettabili.

Questo ci pare cogliere un aspetto assolutamente condivisibile del problema, ma non può tacersi che la oggettiva farraginosità del sistema si deve anche ad un groviglio per niente armonioso tra burocrazia e politica, dove le responsabilità sono parimenti distribuite.

Va anzitutto evidenziato, infatti, che il processo di produzione normativa risente significativamente dell’apporto di quella che sinteticamente abbiamo imparato a chiamare burocrazia, già nella fase di progettazione, elaborazione e poi di stesura effettiva delle disposizioni. È fuorviante immaginare una sorta di percorso discendente obbligato che parte dal livello della elaborazione normativa per proiettarsi verso quello della gestione amministrativa solo quando la norma abbia completato il suo processo di formazione istituzionale. È piuttosto vero che le burocrazie, intese come insieme fondamentale e insostituibile di apparati, cioè non strutture impersonali, ma funzionari spesso di elevata qualificazione e di indubbie doti professionali, è chiamato ad assistere il decisore pubblico istituzionale già nella fase di elaborazione normativa.

Con il risultato che, inevitabilmente, ogni disposizione nascerà con una prospettiva proiettata sulle esigenze applicative che quella parte di amministrazione avverte come prioritarie; ma che molto spesso possono rivelarsi non adeguatamente sensibili alle complessive esigenze delle realtà sociali alle quali è la politica che dovrebbe dare voce. E allora ci sarà poco da sorprendersi se si scoprirà che il provvedimento avvertito come fondamentale per la sopravvivenza economica del Paese nella crisi più profonda da oltre settanta anni sia una antologia di centinaia (letteralmente!) di articoli, commi e disposizioni, regolamentazione aggiuntiva, modificativa, ulteriore – come non bastasse – che si pretende necessaria per far funzionare la già imponente produzione di regole esistente e continuamente implementata. In realtà, una poderosa operazione di svuotamento dei magazzini, ma che si rivela drammaticamente inefficace in quanto esercizio continuo di produzione normativa fine a se stessa, perchè funzionale alle esigenze di chi detta le regole, non sensibile a quelle di chi sarebbe chiamato a giovarsene.

Ma tutto questo accade, sia ben chiaro, non per una sorta di imposizione da parte delle burocrazie, quanto per la debolezza della politica. Cioè per la incapacità della classe dirigente politica di fare quello che sarebbe legittimo attendersi in un ordinamento democratico.

Anni di delegittimazione dell’attività politica, sbrigativamente identificata solo con uno spazio grigio tra l’incompetenza e la cura degli interessi di pochi, se non solo propri, hanno prodotto un progressivo scadimento della selezione della classe dirigente politica. A questo si aggiunga la scelta scellerata di privilegiare forme di contatto tra gli eletti e gli elettori sempre più indirette e rarefatte: la lista bloccata impedisce in radice ogni forma di accountability degli eletti da parte del corpo elettorale, riportando tutto solo alla decisione del capo partito di turno, ma recidendo quel cordone ombelicale tra eletto ed elettori che dovrebbe garantire legittimazione vera e capacità reale di rappresentanza.

Si è perduto anche il tradizionale percorso di formazione politica e istituzionale attraverso incarichi di crescente responsabilità, e per questo anche di crescente prestigio, quella insostituibile palestra di formazione che consentiva una effettiva selezione sul campo dei più capaci e dei più rappresentativi, ritenendo preferibile un criterio impostato al ben diverso canone della fedeltà al vertice di turno.

Ne è derivato nel complesso un generale impoverimento – pur con le dovute eccezioni – della capacità di esercizio del mandato istituzionale richiesto a chi sia investito del potere di legiferare. Con la conseguenza che è divenuto necessario e insostituibile un ruolo di tutoraggio da parte di burocrazie più esperte. Con un esito che vede questa politica da troppe stagioni consegnarsi in ostaggio alle burocrazie. E qui si annida lo snodo più improprio della vicenda.

Con un innaturale contorsione dei termini naturali, chi dovrebbe curare la fase successiva ed attuativa del processo, provvede invece a definire la progettazione strategica in luogo di decisori inidonei al ruolo, contribuendo non poco a creare il corto circuito che ora ci strangola. Questo non avviene perché i Ministeri sono occupati da legioni di burocrati cattivi e insensibili alle esigenze vere della popolazione. Piuttosto, si tratta della naturale conseguenza di due fattori: l’inidoneità a concepire il ruolo dell’amministrare, troppo spesso confuso con la pratica mediatica dell’annuncio dell’ennesima riforma normativa, quando invece spesso sarebbe necessaria e sufficiente una ben più faticosa ma meno visibile opera quotidiana di sana gestione; e, quando realmente occorrente, l’incapacità di governare il processo di elaborazione normativa da parte di chi sarebbe istituzionalmente investito (e pertanto responsabile) di ciò.

È l’incapacità di analizzare, valutare, esprimere una decisione che si nasconde con la auto-deresponsabilizzazione. Compito della politica sarebbe quello di ascoltare, confrontarsi con le idee e proposte diverse, valutare i pro e i contro, sapere operare il faticoso ma necessario bilanciamento, individuare il corretto punto di equilibrio. La mancanza degli strumenti occorrenti per gestire questo per niente affatto semplice percorso è espressione di una debolezza tanto diffusa quanto pericolosa. E si tende a colmarla, o nasconderla, spostando la responsabilità della decisione dal livello politico a quello tecnico. Con la conseguenza, però, che la tecnica detterà ricette e soluzioni in assoluta buona fede, quasi sempre con un approccio di livello (tecnicamente, appunto) indiscutibile, ma giovandosi solo della porzione limitata di prospettiva che le compete.

Perché meravigliarsi se la prima arma sparata contro la diffusione dell’epidemia all’economia reale si è rivelata tragicamente inconcludente? In fondo, ogni scelta rispondeva ad una rigorosa congruenza formale, sulla carta, nell’ovattata dimensione degli uffici dai quali si avvertiva partorita. Ma dov’era il tocco della politica per provare a fare sintesi, elevarsi, richiedere a sé stessa quel sussulto di responsabilità superiore che deve accompagnare il momento della decisione? È appunto questo il problema: la decisione (intesa nel senso indicato) non è mai avvenuta, e già da tempo.

La proliferazione della prassi per cui un provvedimento normativo, magari urgente e atteso, ritarda a vedere la luce istituzionale anche dopo la sua formale approvazione (il tripudio di “salvo intese” degli ultimi anni ha creato una vera e propria categoria di nuova fonte del diritto!) è solo lo specchio del vuoto della politica, che ha saputo relegare se stessa al ruolo di comprimario, occupando la ben poco entusiasmante posizione del battibecco per (pretese) esigenze di spettacolo o di drenaggio del consenso, meglio a proprio agio tra la sintesi da 120 caratteri o la presenza sui social di maggior grido del momento, che tra le faticose necessità di quel lavoro per niente affatto alla portata di tutti che è il prendere decisioni per una comunità.

Di qui, allora, l’aggrapparsi alla ciambella di salvataggio offerta da strutture e personale che risultano davvero “competenti” perché, magari da tempo, chiamati ad occuparsi della gestione di quelle stesse questioni dovendo anche sbrigare gli aspetti applicativi più controversi. Ma questo percorso a ritroso, genera un intreccio perverso che coniuga la debolezza di chi si consegna in ostaggio con la sapienza rassicurante di chi dovrebbe curare l’attuazione, ma per la pochezza o l’assenza del vertice, finisce ben presto per giocare tutti i ruoli, trasferendo spesso al piano normativo la soluzione anche delle problematiche applicative che richiederebbero niente più che una ordinaria attività di gestione. Proliferano le norme interpretative, le norme provvedimento, quelle che in un mondo normale sarebbero poco più che circolari, trasfuse in disposizioni di rango legislativo. Magari brandendo la norma come scudo di protezione contro i rischi di responsabilità personali e professionali moltiplicate nella complessità della gestione. Il tutto irrigidendo il processo e facendo lievitare il prodotto, complicando invece che snellendo l’offerta di soluzioni necessarie di fronte a problemi che richiedono una ben diversa risolutezza.

In questo sta quell’incestuoso rapporto che finisce per affidare alla burocrazia non solo la responsabilità di scelte che, a ben vedere, sono già nella norma a monte; ma la stessa elaborazione normativa, intesa non come mera stesura tecnica – che pure richiede competenze e capacità troppo spesso svilite ingiustamente – ma di progettazione e proposta.

Per interpretare a dovere il senso istituzionale di un incarico pubblico con elevate responsabilità ci vuole padronanza dell’analisi, cognizione di causa, disponibilità all’ascolto, consapevolezza delle ricadute di ogni decisione, capacità di sintesi tra le diverse istanze. È questa la decisione istituzionale che dovremmo meritarci.

È un’arte faticosa e per niente scontata, ma l’inadeguatezza di chi non ne ha la capacità è denunciata proprio dalla agilità a spogliarsi della responsabilità, trasferendone l’onere su una burocrazia che potrà poi sempre essere additata al pubblico ludibrio.

Adesso la misura è colma. La gravità del momento non consente più di tollerare l’inidoneità. È giunto il momento di rivendicare più capacità di decisione e meno debolezza istituzionale in chi sceglie di assumere una responsabilità che questo richiede.