L’integrazione non si fa a colpi di buonismo

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L’integrazione non si fa a colpi di buonismo

12 Agosto 2011

Secondo Alexis de Tocqueville “in America la maggioranza innalza formidabili barriere attorno alla libertà di opinione; all’interno di quelle barriere un autore può scrivere e pensare ciò che vuole, ma se le supera è spacciato” (Democracy in America, vol.1, cap. 15).

Deve essere stata questa sensazione di claustrofobia culturale a far esplodere un autore con David Mamet, che per anni, all’interno di quelle barriere aveva primeggiato in talento e guadagnato premi e consensi. Poi, poco a poco, Mamet si è accorto dell’esistenza di quel confine invalicabile di cui parla Tocqueville; ne ha saggiato la possanza e la pervasività e alla fine gli è parso impossibile fare finta che non esistesse o che non lo riguardasse.

Mamet ha scavato a lungo dentro di sè e dentro quella concrezione di pregiudizi che fa di un cittadino a stelle e strisce un “brain-dead liberal”, un liberale senza cervello – categoria a cui l’autore confessa di aver a lungo aderito – e lo ha fatto con il cucchiaino del buon senso e con la fune della sua personale esperienza di vita. Così, d’un tratto ha aperto un varco e si è ritrovato libero. La storia di questa fuga dall’Alcatraz del politicamente corretto made in Usa è raccontata nel suo saggio, “The Secret Knowledge” ora pubblicato a puntate su Il Giornale.

Ma come capita spesso ai grandi autori, Mamet è forse andato al di là delle sue stesse intenzioni. The Secret Knowledge non è solo la storia di una ascesi conservatrice e il risultato di una personale illuminazione; ma dal punto di vista di chi legge diviene uno straordinario manuale di interpretazione della realtà.

Quando Mamet scrive che “il progressismo è una religione: i suoi principi sono indimostrabili, la sua capacità di spreco e distruzione è dimostrata”, basta sostituire il progressismo con il suo equivalente europeo, il multiculturalismo, e si ha una efficace analisi di quanto sta accadendo in questi giorni nelle periferie londinesi e in alcune grandi città del Regno Unito. Fu il progressismo di Blair ad aprire le porte all’immigrazione di massa dall’Africa e dall’Asia tra il 1997 e il 2007. All’inizio la strategia dell’accoglienza e della contaminazione cuturale fu uno degli ingredienti principali del successo del Labour nelle urne. In breve tempo però l’Inghilterra ha assistito ad uno sconvoglimento demografico la cui rapidità non ha precendenti. Oggi i quartieri teatro della protesta o le città come Birmingham hanno “minoranze” di immigrati attorno al 40 per cento, buona parte dei quali vivono “di immigrazione” a spese del welfare inglese. Secondo uno studio citato dall’ultimo numero dell’Economist, di questo passo, nel 2066 gli inglesi saranno la “principale minoranza” del paese. Per questo David Cameron ha vinto le elezioni sostenendo che l’approccio progressista all’immigrazione – il multiculturalismo – è fallito. E per questo ha ragione Mamet quando scrive: “L’attitudine progressista nei confronti della nostra guerra contro l’Islam radicale è una preferenza per l’azione che metterebbe fine al conflitto immediatamente e senza rancore. Quell’azione, sfortunatamente, si chiama resa”. Sembra di sentire Geert Wilders o qualcuno degli “ultradestri” europei che vanno per la maggiore, invece è un commediografo ebreo di Chicago che ha votato per Obama e che i liberal americani osannavano fino a pochi mesi fa.

Ancora più pertinenti e attuali sono le osservazioni di Mamet su Israele e sulla “narrativa” liberal attorno al conflitto israelo-palestinese. I liberal americani, ma lo stesso si potrebbe dire della sinistra italiana ed europea, guardano alle vicende medio-orientali come a un film: hanno pagato un biglietto – quello della condanna di Israele – seguono una trama prestabilita e non vogliono essere disturbati dalla realtà. Sono innamorati degli “effetti speciali” e non si curano della finzione che li rende possibili. “Nel mondo occidentale – scrive Mamet – a molti piace non la sofferenza, bensì la contemplazione della sofferenza dei palestinesi”. Se non fosse così qualcuno interverrebbe per fermare la trama invece si aspetta con ansia la prossima puntata.

Non può non venire in mente il tentativo dell’Onu di arrivare al riconoscimento unilaterale dello Stato Palestinese. Si tratta di pura fiction, ma è un ingrediente esplosivo da aggiungere alla storia per renderla un po’ più movimentata e godersi “l’effetto che fa”. Il meccanismo è quello del Grande Fratello: se la noia avanza e gli ascolti calano, basta buttare un nuovo personaggio nell’arena e vedere se sbrana o sarà sbranato. L’Onu sta per fare lo stesso con il Medio-oriente passando dalla vecchia impostazione del “land for peace” alla nuova ed eccitante “land for war”. Non resta che pagare il biglietto.

(tratto da Il Giornale)