L’intervento sulle pensioni è inevitabile ma serve un vero progetto di riforma
21 Gennaio 2009
La ormai famosissima sentenza C-46/07 della corte Ue – con cui è stato rifilato un cartellino giallo all’Italia perché non dà garanzie di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di pensioni – ha innescato un ampio dibattito sulla necessità di un nuovo intervento di riforma della previdenza. Un dibattito praticamente monopolizzato dall’interrogativo «elevare a 65 anni l’età di pensione alle donne?». Perché la corte ha semplicemente, per così dire, affermato che la differenza di età prevista tra uomini (65 anni) e donne (60 anni) rappresenta una disparità di trattamento e perché appare a tutti scontata l’impraticabilità di una soluzione opposta, pur ipotizzabile, quella cioè di abbassare a 60 anni l’età di pensione degli uomini.
L’interrogativo non ha atteso a lungo le prime risposte, da quelle meno disponibili dell’ala sindacale («non ci si provi nemmeno»: la Cgil, per esempio) fino a quelle progressiste del governo (una parte almeno del governo) che, anzi, vede l’incombenza come una buona occasione per mettere mano a una nuova riforma.
Dibattito a parte, una cosa è indiscutibile: l’intervento. Non si può, cioè, non riparare l’irregolarità contestata dalla corte di Strasburgo: lasciare le cose come stanno significherebbe andare incontro alle pesanti sanzioni dell’Ue. In questo senso va analizzata la linea del governo che, per ora, si è soltanto impegnato nei confronti dell’Ue a dare seguito alla sentenza, prendendo tempo – e non poteva fare altrimenti – per comunicare le contromisure. Misure al cui studio è dedita un’apposita commissione («Commissione sull’età pensionabile») istituita dal ministro Renato Brunetta.
La Commissione riflette in un range che ha come minimo l’intervento limitato a eliminare (solo) la discriminazione, e come massimo un’azione più ampia per comprendere altri e diversi aspetti (una riforma vera e propria). La molla che avvicina o allontana i due estremi è la pronuncia della corte Ue, la cui analisi impone la «misura minima» necessaria per ristabilire la legittimità delle norme nazionali. Al di là del verdetto finale – le donne sono favorite rispetto agli uomini sull’accesso alla pensione – occorre capire «quali» lavoratori sono implicati (quelli del settore pubblico, privato o di entrambi?) e «quali» pensioni sono coinvolte (quella di vecchiaia, anzianità o entrambe? quelle retributive, contributive o tutte e due?).
Quali lavoratori? La sentenza riguarda esclusivamente il settore pubblico, vale a dire i lavoratori iscritti all’Inpdap. Per appurare se sia obbligatorio intervenire pure nel settore privato occorre chiedersi se la pronuncia non abbia (o possa avere) effetti anche nel regime pensionistico Inps. La risposta è negativa. Se la corte è arrivata a dichiarare la discriminazione, l’ha fatto perché prima ha rilevato che la pensione erogata dall’Inpdap è assimilabile a una «retribuzione». Questo stesso espediente non funziona con successo nel regime pensionistico privato (Inps). Secondo la corte, infatti, il criterio rilevante è quello dell’impiego, in base al quale la pensione viene assimilata a retribuzione se e in quanto «corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro che lo unisce al suo ex datore di lavoro». E nel caso del settore pubblico, Inpdap, la corte ha evidenziato che «la pensione … è versata dallo Stato in qualità di datore di lavoro». Così non avviene, invece, nel regime Inps.
Esclusa la necessità «giudiziaria», ci si deve interrogare se non sia comunque opportuno manovrare anche nel settore privato, una volta appurata l’inevitabilità d’intervento nel settore pubblico. Ciò al fine di evitare differenziazioni di disciplina tra Inps e Inpdap, tra lavoratori privati e pubblici. Per esempio, posto un intervento di equiparazione a 65 anni, tra uomini e donne, dell’età di pensione Inpdap, non fare la stessa operazione per l’Inps significherebbe avallare una differenza tra le lavoratrici del settore pubblico (in pensione a 65 anni) e quelle del settore privato (in pensione a 60 anni). Ci sarebbero motivi per giustificare tale disuguaglianza? Probabilmente sì, le stesse ragioni che hanno motivato finora la differenza d’età di pensionamento tra uomini e donne: compensare gli svantaggi nelle carriere professionali. La questione nodale è una: la maternità, la cura dei figli. Che è una vera causa di differenzazioni di trattamento sul lavoro e sull’occupazione tra uomini e donne. La disciplina dei congedi sulla maternità, pur basandosi sui medesimi principi (il Tu approvato dal dlgs n. 151/2001), conduce a risultati ben diversi a seconda che riguardi un rapporto di lavoro privato o uno pubblico. Per esempio, nel settore pubblico è zero, cioè inesistente, il rischio della sicurezza del posto di lavoro o dell’avanzamento di carriera (per quanto illegali e perseguiti dalla legge, episodi del genere non mancano nel settore privato). Sempre nel settore pubblico, i lavoratori contano su trattamenti (retributivo e contributivo) migliori rispetto ai privati, nei casi di congedi parentali e altri permessi di cura e assistenza dei figli. Tutto questo suggerisce, allora, che il favore alle donne di anticipare di 5 anni l’età di pensione rappresenta una vera misura compensativa più nel settore privato che in quello pubblico; più per le lavoratrici madri che per le altre.
Perciò, se l’elevazione dell’età a 65 anni per la pensione delle donne nel settore pubblico non si presta a particolari conseguenze critiche (ben venga e subito), la stessa operazione per le donne-madri del settore privato è opportuno e giudizioso che avvenga solo con una contropartita di riforma delle norme sui congedi di cura per la famiglia. Non come forma di risarcimento a fine carriera, ma con migliori strumenti di tutela per la cura e l’assistenza dei figli durante la vita lavorativa.
Quali pensioni? Posto, come detto, che la sentenza riguarda solamente il settore pubblico, per rispondere al secondo interrogativo – quali pensione sono coinvolte? – giova prima richiamare brevemente i trattamenti erogati dall’Inpdap. Due i principali: la pensione di anzianità e la pensione di vecchiaia.
La pensione di anzianità si matura con almeno 35 anni di contributi e un’età che oggi è di 58 anni, a luglio salirà a 60 (59 se si hanno 36 anni di contributi) fino ad arrivare nel 2014 a 62 anni (61 in presenza di 36 anni di contributi); indipendentemente dall’età, si va in pensione di anzianità con 40 anni di contributi.
Di vecchiaia ci sono due tipi di pensione: quella retributiva e quella contributiva. Con riferimento ai requisiti, la prima si rivolge ai lavoratori con un’anzianità contributiva (qualsiasi) al 31 dicembre 1995, la seconda a quelli che hanno cominciato a lavorare dopo. Alla prima si accede con almeno 20 anni di contributi (15 anni per chi era in servizio al 31 dicembre 1992) e l’età di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. Alla seconda si accede con almeno 5 anni di contributi e l’età di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne; oppure in presenza di 40 anni di contributi, a prescindere dall’età, ovvero con almeno 35 anni di contributi e l’età prevista per la pensione di anzianità.
La sentenza della corte Ue riguarda la pensione di vecchiaia retributiva. E’ una pensione sulla via del tramonto, destinata a scomparire con il sistema stesso di calcolo retributivo delle pensioni. Al di là delle implicazioni giudiziarie europee, c’è da chiedersi se, vista la necessità d’intervento su questo tipo di pensione, non sia opportuno intervenire pure sulla pensione di vecchiaia contributiva. Più che opportuno l’intervento sembra altrettanto obbligatorio. Perché altrettanto discriminante sarà la situazione, nonostante il cambio delle regole di calcolo della pensione. Infatti, la sentenza spiega che «costituisce anche una retribuzione…» (dunque comunque soggetta al rischio discriminazione) «una pensione il cui importo è calcolato sulla base dell’importo di tutti i contributi versati durante il periodo d’iscrizione del lavoratore….» (sentenza Maruko, causa C-267/06). E la pensione di vecchiaia contributiva, rispetto a quella retributiva, non si differenzia per altro se non perché viene calcolata sui contributi invece che sulla retribuzione da lavoro.
Insomma, la molla che distanzia gli estremi d’intervento allo studio della Commissione governativa non è tanto elastica; tendendola si rischia di spezzarla. La misura minima, che non è proprio minima, suggerisce (ma sarebbe corretto dire: obbliga) di mettere mano a tutte le pensioni di vecchiaia del settore pubblico (Inpdap). Questo finirà per introdurre delle differenze di trattamento tra lavoratrici pubbliche e private; per scongiurarlo è necessario intervenire pure sulle pensioni di vecchiaia Inps. Tuttavia, quest’ultimo intervento risulterà «giudizioso» (socialmente apprezzabile) soltato se verrà accompagnato da una contestuale manovra sulle “ragioni” che hanno giustificato finora la presenza della diversità di requisiti di pensione, al fine di meglio adattarle alle esigenze delle lavoratrici. La strada da percorrere, dunque, non può che essere quella di adottare una soluzione non «sorda alle propensioni e alle esigenze delle persone» (G. Cazzola, «Se le donne vanno in pensione più tardi ci guadagnano tutti» su questo stesso Quotidiano).
Occorre, in definitiva, un «progetto» più che una «iniziativa» di riforma. Un progetto che riconosca e valorizzi le specificità femminili (perché no: distinguendo tra le lavoratrici con/senza maternità), con «tutele operanti nel corso della vita lavorativa… piuttosto che … in una logica di risarcimento forfetario a fine carriera».