L’intervento sulle pensioni è la premessa per il rilancio

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L’intervento sulle pensioni è la premessa per il rilancio

11 Agosto 2011

In questi giorni è tornato a risuonare, da varie parti dello schieramento politico, un roco grido di battaglia che troppe volte abbiamo sentito riecheggiare negli ultimi quindici o venti anni: “Le pensioni non si toccano”. La prima reazione, più che di noia, è stata di fastidio. La ripresa dell’usato slogan ci confermava che la politica italiana pare inchiodata su di un fermo fotogramma che non si riesce a muovere per quanto si pigi sul tasto play. Pure, al di là del disgusto per la demagogia a un tanto al chilo, occorre farsi forza, prendere il coraggio a due mani, e discutere rapidamente il problema.

Il sistema pensionistico italiano è stato immaginato alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Esso era basato su di un ragionamento all’epoca ancora accettabile. Poiché il tasso di natalità era alto si potevano far pagare le pensioni di chi aveva smesso di lavorare con i contributi dei lavoratori attivi. Dopo pochi anni il tasso di natalità è sceso nettamente e la curva demografica ha rallentato, ma anziché intervenire (anche solo con correttivi graduali), per lunghi decenni si è fatto finta di nulla. In più, accanto alle pensioni di vecchiaia hanno preso uno spazio crescente le pensioni di anzianità che, immaginate negli anni cinquanta per alcuni tipi di dipendenti pubblici, sono state estese a tutte le categorie di lavoratori. A tal proposito basta ricordare che in quella lunga fase molte spinose vertenze sindacali di fabbrica si risolvevano con generosi prepensionamenti. Un sistema infallibile per accontentare i padroni e le maestranze a spese dell’Inps ovvero dell’erario.

Quando la situazione era quasi degenerata si è corsi ai ripari introducendo, con la cosiddetta riforma Dini, un calcolo diverso per i nuovi lavoratori, ma senza toccare i diritti acquisiti. Così dal 1996 ad oggi grazie a un meccanismo perverso che consente, ai fini delle erogazioni previdenziali, di valutare gli anni di servizio in combinato con un’età minima ancora inferiore ai sessanta anni, sono andati in pensione tantissimi lavoratori. In certi settori del pubblico impiego il fenomeno ha acquisito una velocità crescente, alimentato dalla paura di perdere l’ultimo treno utile.

Pochi dati sommari sono più che sufficienti per farsi un’idea dell’entità della questione. Nell’ultimo anno (il 2010) su circa trecentomila nuove pensioni erogate le pensioni di anzianità sono state oltre la metà (175.000). In altri termini, quello che doveva essere il canale aggiuntivo che consente di lasciare il lavoro prima dei sessantacinque anni è ancor attivissimo e pesa in maniera esiziale sugli equilibri previdenziali. Basti ricordare che l’età media dei pensionamenti in Italia è inferiore di tre anni alla media europea. Data una tale condizione non c’è da meravigliarsi che all’estero siano scettici sulle intenzioni italiane di risanamento e non si accontentino di promesse vaghe ma vogliano iniziative concrete e tangibili.

In sostanza, se non si tocca il nodo previdenziale non si pongono neanche le premesse per un rilancio effettivo dell’economia. A tal proposito non serve dire che la crescita del nord è confortante e che è il sud che non cresce. Gli interventi strutturali sulla previdenza servono anche ad alleggerire le zone più dinamiche del Paese rendendo più agevole tenere il ritmo con la concorrenza straniera.

Ancora non sappiamo quali misure contiene il decreto che il governo ha intenzione di varare la prossima settimana. Ma c’è da sperare che in tema previdenziale si tratti di misure energiche; magari una nuova versione dello “scalone”, cioè un aumento brusco dell’età pensionabile, votato nel 2005 e poi improvvidamente cancellata dal governo Prodi.

Diciamo la verità, ci avrebbe fatto piacere che l’intervento sulle pensioni venisse fatto dal governo a testa alta e in condizioni di calma. Adesso la cosa si farà, se si riuscirà a farla, in maniera concitata e sotto la ferula di un vincolo esterno. Ma, al punto in cui siamo, non si può guardare troppo per il sottile. In faccende come queste è più che mai vero il detto che alla fine quello che conta è il risultato.