Lipsia, 9 ottobre 1989: la rivoluzione tedesca prende forma

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Lipsia, 9 ottobre 1989: la rivoluzione tedesca prende forma

08 Novembre 2009

Il 9 ottobre del 1989 era un lunedì ed appena due giorni prima la DDR aveva festeggiato il proprio quarantennale. Per le strade di Lipsia, dopo essersi radunato all’interno e a ridosso della chiesa protestante di San Nicola per la “festa della luce”, scese un popolo di 70.000 persone a lanciare la sfida al regime comunista di Berlino Est. La tensione era altissima, il rischio di una reazione violenta da parte delle forze dell’ordine era nell’aria. Ma non ci fu. Da quel momento le autorità furono indotte al dialogo ed appena un mese dopo il Muro di Berlino crollò.

Nei vent’anni che ci separano dalla caduta di quel Muro, nel ripensare gli antefatti e chi vi contribuì ci si è facilmente abituati a concentrare l’attenzione sulla città divisa. In realtà quello fu l’evento ultimo, indispensabile e decisivo, di un pacifico movimento di rivolta al regime comunista della DDR iniziato diversi mesi prima di quel fatidico 9 novembre 1989. Quella società totalitaria che il cardinale di Colonia e già arcivescovo di Berlino Joachim Meisner ha recentemente definito una “sezione esterna dell’inferno” aveva raggiunto l’apice nella propria opera di sottrazione al popolo, in particolare ai giovani, di qualsiasi “prospettiva di futuro e gioia di vivere” (ancora Meisner).

Ciò che finora è rimasto meno noto è quel popolo che coltivando l’individuale aspirazione alla libertà e alla giustizia all’interno di contesti cristiani ebbe la forza e il coraggio di trasformarla in rivolta pacifica. Gli stessi tedeschi, nonostante le non poche esternazioni nostalgiche di intellettuali alla Günter Grass, s’azzardano oggi a definire quel movimento la prima rivoluzione riuscita sul suolo tedesco. Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le pubblicazioni e le occasioni di confronto utili per capire come sia potuto accadere qualcosa di assolutamente imprevisto (“tutti noi”, ha detto ancora Meisner, “eravamo convinti che il regime comunista sarebbe durato ancora per secoli”) e non mancano i paragoni con la rivoluzione francese del 1789: “Quello fu il primo tentativo di creare un ‘uomo nuovo’ inteso come prodotto della ragione umana”, ha detto Ulrich Schacht al recente convegno di Erfurt dedicato a “Spirito e rivoluzione”, “e le ulteriori drammatiche conseguenze si sono avute con la rivoluzione russa del 1917”.

“Le dimostrazioni del 1989”, ha aggiunto lo scrittore, “si sono raccolte invece ai piedi della croce di Cristo”. Ciò che ha reso a lungo incomprensibile la “rivoluzione tedesca” agli occhi di tanti intellettuali occidentali è stato proprio il grido “nessuna violenza”, rivolto dai manifestanti di Lipsia e delle altre città insorte a se stessi e ai guardiani dello stato. Tanto che si è arrivati ad usare il termine il termine improprio di “controrivoluzione”, quasi ad indicare un movimento regressivo della storia e non una imprevista conquista di libertà.   

Detto del fervore che sta animando la storiografia contemporanea tedesca sul tema, anche il lettore italiano ha ora a disposizione un contributo utile alla comprensione di quegli eventi. Lipsia 1989, di Paola Rosà (Il Margine, Trento 2009, p. 266, € 16,00), oltre a ricostruire con dovizia la storia della DDR, raccoglie le fondamentali testimonianze di Christian Führer, al tempo pastore della chiesa di San Nicola, di Christoph Wonneberger e Ehrhart Neubert, anch’essi protestanti, e di Eberhard Tiefensee, sacerdote cattolico. Di grande interesse sono anche i testi ed i documenti raccolti in appendice.

Difficile capire invece la necessità di aggiungere un’intervista a Gian Enrico Rusconi, la cui unica preoccupazione è quella di denunciare “l’ossessione europea sulle radici cristiane” e di sminuire i fondamenti cristiani della rivolta tedesca (“la chiesa sembra più un luogo, e forse un pretesto”), finendo con l’attribuire i meriti della sensibilità non violenta dei manifestanti allo stesso regime che volevano abbattere (“in fondo la pace era anche il grande argomento retorico del comunismo di allora”). Del resto la stessa Rosà non è immune da certi luoghi comuni e pregiudizi ideologici. Ne sono testimonianza le fonti e la bibliografia, dove, per esempio, sono assenti la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e “Die Welt”, probabilmente perché superficialmente identificati come “conservatori”.

Non meno grave, tra i nomi degli studiosi che hanno ricostruito la storia della dittatura tedesco-orientale, la mancanza di quel Hubertus Knabe che, oltre ad essere direttore scientifico del Centro Monumentale di Berlino – Hohenschönhausen, è autore apprezzato di diversi volumi frutto del lavoro svolto per anni per conto del governo federale sui documenti prodotti dal Ministero per la Sicurezza Statale (Stasi) di Berlino Est. Anche lui è considerato un “conservatore” solo perché attento a denunciare l’eredità comunista tedesco-orientale nell’attuale Germania riunificata. La sua assenza dunque sa proprio di censura.