L’Iraq fa i conti con il suo passato ma non è facile
25 Gennaio 2008
“Esiste una specie di doppia personalità nei membri del Partito Baath. Alcuni di loro sono killer, ma a casa con le loro famiglie, sembrano completamente normali. È come se dividessero la loro giornata in due blocchi da dodici ore. Quando la gente dice di qualcuno che io so essere un criminale baathista, ‘No, quello è un bravo vicino’, gli credo. Il Partito Baath è come il Partito Nazista, o come la Mafia. Se li incontri sono simpatici, i baathisti. Questo è il motivo per cui fare il nostro lavoro – che consiste nel cambiare veramente la società irachena – è così difficile”.
Si esprime in questo modo, Mithal al-Alusi, fondatore e capo del Partito della Nazione Irachena nonché ex- baathista e direttore della commissione sulla de-baathificazione (2004), quando viene interpellato riguardo al processo di allontanamento dalla vita politica degli ex-membri del Partito Socialista Arabo, nato negli anni ’40 del secolo scorso come movimento di resistenza contro il dominio occidentale.
L’acceso dibattito intorno al processo di allontanamento dalla vita civile degli ex- appartenenti al Partito Baath, si è subito imposto come uno degli ostacoli più difficili da superare nel già di per sé problematico contesto della nazione irachena in seguito alla cattura – da parte Usa – di Saddam Hussein. Contesto caratterizzato dall’esistenza delle due differenti interpretazioni religiose musulmane, quella sciita e quella sunnita.
Infatti, il trattamento da riservare agli ex-baathisti è stato oggetto di aspre discussioni in seno ai nuovi membri del Congresso e, più in generale, di tutti gli uomini politici sia iracheni che americani. Secondo al-Alusi il problema starebbe proprio qui: “I politici americani come la Rice, non sanno cosa stanno facendo”. Infatti la nuova legge sugli ex-baathisti, approvata proprio questo mese dal Parlamento di Baghdad – ma che richiede ancora l’approvazione del consiglio della Presidenza irachena – è stata caldeggiata dal Presidente Bush in persona, comunque in sintonia con i politici indigeni ed ha significato un ammissione di colpa che dimostra la buona fede degli statunitensi. Infatti la prima legge contro gli ex-membri del partito Baath si era dimostrata fin troppo punitiva arrivando ad escludere dalla vita del paese decine di migliaia di persone che – come successe in Italia con il PNF – erano state “costrette a farsi la tessera” per sopravvivere.
Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: le conseguenze della nuova legislazione non sono prevedibili in anticipo e dipendono in larga parte dal modo in cui la legge verrà di volta in volta implementata. Esempio: Ai tempi della prima “purga” anti baathista, dopo il crollo della statua di Saddam, c’era chi, come i membri del INC (Iraqi National Congress), i partiti sciiti e i funzionari civili al Pentagono, spingeva per un colpo di spugna definitivo, che potesse debellare l’erba marcia dalle radici. Un po’ perché gli iracheni sciiti – che sono la maggioranza – ne avevano abbastanza del dominio sunnita, un po’ perché gli americani al Pentagono, non conoscendo fino in fondo la situazione politica irachena, in questo modo potevano star sicuri di non commettere errori – dal loro punto di vista la posta in gioco era talmente alta che buttare via il classico bambino insieme all’acqua sporca poteva ritenersi comunque un obbiettivo auspicabile. Il che, come detto si è rivelato un errore quasi fatale al quale si è tentato di porre rimedio gradualmente.
C’era però anche chi – come l’INA (Iraqi National Accord) ed i gruppi liberali facenti capo a Adnan al-Pachachi (eletto nella lista politica dell’Ex-Primo ministro iracheno Ali Allawi) – riteneva che una selezione accurata dei veri colpevoli e degli ufficiali d’alto rango del Partito Baath sarebbe stata la soluzione migliore.
Si dovrebbe tenere in mente che, verso al fine del 2003, il partito controllato da Saddam contava circa due milioni di membri e non era in alcun modo un monoblocco sunnita. C’erano infatti al suo interno sia sciiti che curdi. Ma c’è anche da ricordare che i maggiori protagonisti dell’insurrezione anti-americana erano – almeno all’inizio – ex-membri del Partito Baath che tentavano di sfruttare le conoscenze e le abilità militari acquisite negli anni passati al servizio del dittatore sunnita a loro vantaggio. Ecco perché stabilire chi avesse ragione nel dibattito tra i fautori del colpo di spugna e i garantisti non è certo cosa facile. Fatto sta che qualcuno cominciò a prendere delle decisioni. L’ordine del giorno numero uno, emanato dalla Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA) consisteva nel proibire l’occupazione di una qualsivoglia poltrona del settore pubblico agli ufficiali d’alto rango del Partito Baath. Come sostenevano i funzionari americani, questo significava tagliare fuori dalla vita politica e civile almeno 20.000 iracheni, che a loro volta equivalevano a circa l’1% dei membri dello stesso partito. Inoltre, come sostiene lo stesso Ali Allawi nel suo recente libro dal titolo: “The occupation of Iraq: Winning the war, losing the peace”, gli individui che hanno fatto parte della creatura politica di Saddam non hanno poi subito lo stesso trattamento degli ex-ufficiali nazisti, braccati dalle autorità in giro per il mondo. Questo perché, secondo molti iracheni, il Partito Ba’ath non era di per sé malvagio ma è stato distorto dal dittatore di Tikrit e utilizzato a suo favore. C’erano quindi buoni e cattivi baathisti e quindi s’imponeva una distinzione (accurata) in tal senso.
È a questo punto che inizia lo scaricabarile: mentre Paul L. Bremer – ex- amministratore Usa ai tempi dell’occupazione – intervistato dal Washington Post, dichiara di aver commesso un errore quando ha deciso di coinvolgere gli iracheni sciiti con i loro sentimenti di vendetta nell’implementazione della prima legge per la de-baathificazione, Mithal Al-Alusi è invece di parere decisamente contrario: “ La Casa Bianca non capisce che si tratta di un partito [quello Ba’ath ndr] islamofascista, è questo il punto principale”.
Quando si a che fare con un partito islamofascista le mezze misure non portano a niente, sembra voler dire tra le righe il capo del Partito della Nazione irachena, che fu coinvolto in un’imboscata (mortale per i suoi due giovani figli) nel febbraio del 2005, poco dopo essere rientrato da un viaggio diplomatico in Israele dove aveva ammiccato al governo democratico (ma soprattutto ebreo) di Tel-Aviv.
Anche l’allora direttore esecutivo della commissione di de-baathificazione – Ali Faisal al-Lami – ci tiene a sottolineare che a suo avviso il governo Usa è andato oltre nell’implementazione della prima legge. L’ordine numero Uno di Bremer ha causato l’allontanamento di 140.000 (!) ex-membri del Partito Baath dai loro posti di lavoro e quando la commissione ha iniziato a funzionare nel gennaio del 2004, lo ha fatto ha riammettendo ai loro posti tutti i ranghi minori del partito: Circa 102.000 persone.
Che fine hanno fatto allora gli altri 38.000 uomini di Saddam? Si tratta ovviamente di quelli che ricoprivano ruoli importanti all’interno del Partito ed ora devono essere selezionati. Certo non si può mettere un ex-criminale di guerra dietro una scrivania governativa. Secondo alcuni sunniti – e quasi tutti i diplomatici occidentali – lo sciita Chalabi avrebbe calcato troppo la mano contro i sunniti favorendo invece gli sciiti, dimostrandosi a dir poco partigiano. Il problema, però, sta nel fatto che la nuova bozza di legge fatta circolare dagli ufficiali Usa tra i politici iracheni non menzionava la restrizione, implementata invece nella legge definitiva, che vieta l’assunzione di molti ex-baathisti nei ministeri chiave come quello della Difesa, degli Interni, degli Esteri e della Finanza. Siccome circa 7.000 membri del partito Baath occupano già quei posti di lavoro, il nuovo disegno di legge potrebbe di fatto trasformarsi in un’altra “purga”, scalzando questa gente dalle loro poltrone. Ecco perché sono in molti gli iracheni che considerano questo ordinamento giudiziario un’ulteriore spallata alla fragile unione tra sciiti e sunniti.
Il che attesta che c’è voluto un po’ di tempo per capire in che razza di pantano s’erano andati a ficcare gli americani, ma meglio tardi che mai. Mentre l’ormai defunto esecutivo Prodi si è scapicollato a ritirare (formalmente) i soldati italiani dall’Iraq, perdendo così l’occasione di partecipare alla vittoria militare e al complicato processo di ricostruzione del paese reale iracheno, l’amministrazione Bush rischiava coraggiosamente i suoi uomini per portare a compimento una missione vitale nel contesto mediorientale e quindi – forzatamente – anche in quello globale. Però ora gli americani devono evitare di rifare gli stessi errori – mettersi d’accordo sul come filtrare la sabbia dalle pepite d’oro – (lavoro che dovrebbe riuscirgli discretamente) e soprattutto non farsi troppo influenzare dalle opinioni di chi non ha mai goduto dell’appoggio degli stessi iracheni (vedi Allawi e lo stesso Chalabi). Così come è successo in Italia dopo la fine della repubblica di Salò (dove i cavalli morivano di noia) e in Spagna con gli ex-franchisti, si deve necessariamente evitare di fare di tutta l’erba un fascio e stabilire chi è colpevole (tutti quelli che avevano aderito spontaneamente al Partito Baath e ricoprivano incarichi importanti) e chi no (i poveracci che furono costretti a “farsi la tessera”).
Infatti, se non si segue questa strada, stando a quanto detto da Muhammed Kareem – ex impiegato nel ministero del Petrolio – il quale è stato costretto a lasciare l’Iraq in seguito alla guerra, nel marzo 2003 – la nuova legge potrebbe trasformarsi in “una bomba sulla via della riconciliazione”. “Questa legge – ha dichiarato Kareem al WP – non porta niente di nuovo. Non serve alla riconciliazione nazionale alla quale tutti gli iracheni aspirano. Al contrario sobilla ostilità, odio, discriminazione e attacchi settari”.
Questo procedimento legale incoraggiato dall’amministrazione Bush – spiega ancora Kareem al WP – in un certo senso rappresenta l’astio che il governo sciita prova nei confronti dei burocrati baathisti e, per quanto lo riguarda personalmente, assomiglia pericolosamente ad un “esca”. Kareem vive ora ad Amman (Giordania) e se volesse ottenere la sua pensione dovrebbe ritornare a Basra, il che significherebbe una morte quasi certa.
Forse ha ragione Mithal Al-Alusi quando dice che “ogni iracheno è prima di tutto un essere umano… Non ci serve davvero che altre persone s’intromettano nei nostri affari giudicando chi deve essere amico di chi. Lasciate che gli iracheni curino gli affari degli iracheni”, forse ha davvero ragione lui. Ma senza gli Usa sarebbe stato impossibile sbarazzarsi di Saddam, l’uomo che aveva instaurato uno dei regimi più sanguinari della storia mediorientale. Che dire invece di noi italiani? Recalcitranti fin dall’inizio a sporcarsi gli stivali nel “pantano iracheno”, dobbiamo ancora una volta stare a guardare gli americani e imparare da loro. La storia o si fa o si subisce.