L’Iraq mette in conto il ritiro Usa e trema
24 Maggio 2007
Il Premier iracheno Nouri al-Maliki ha ricevuto una telefonata molto importante lunedì mattina. Dall’altro capo della cornetta c’era niente di meno che George W. Bush, il quale avrebbe chiesto lumi in merito ad eventuali progressi raggiunti dal suo collega iracheno e relativo governo. Progressi che sono attesi da lungo tempo in quel di Washington e che riguardano, in primo luogo, la gestione delle risorse petrolifere irachene e la loro ripartizione tra sciiti, sunniti e curdi. Anche la riforma costituzionale è stata al centro della conversazione di lunedì mattina. Si tratta, infatti, di un altro “hot spot”, di un altro nodo da sciogliere della politica irachena. Bush avrebbe avvertito Maliki che il supporto americano al suo governo non è più incondizionato e gli ha chiesto di mettere sul tavolo alla svelta “risultati concreti”. Ecco perché Robert Reid dell’Associated Press nel suo articolo parla di un ritiro delle truppe Usa in tempi brevi, qualora il governo Maliki non risponda in maniera adeguata al monito lanciato (più volte per la verità) dal Presidente americano, come Reid ha appreso da due ufficiali iracheni rimasti anonimi.
Reid, nel suo articolo intitolato “Piani iracheni per un possibile ritiro anticipato delle truppe Usa”, prende spunto dalle dichiarazioni del Ministro della Difesa iracheno, Abdul-Qader al-Obeidi, secondo cui l’esercito si sta preparando a un eventuale ritiro anticipato degli americani. “L’esercito [iracheno] si prepara sulla base del peggiore scenario possibile, così da non prevenire la formazione di vuoti di sicurezza…i leader politici stanno discutendo sul modo migliore per affrontare un ritiro improvviso [dei soldati Usa]”, avrebbe detto Obeidi ai giornalisti. Ora rimane da chiarire a cosa il Ministro iracheno abbia fatto riferimento; se alle voci di corridoio sul possibile ritiro americano (che riflettono le paure dei politici iracheni) o a una semplice procedura militare di routine. Quel che è certo è che il vice portavoce della Casa Bianca, Tony Fratto, ha usato toni ottimistici nel riferire della telefonata; Bush nutrirebbe ancora fiducia nei confronti del Premier iracheno nonostante la situazione sia per certi versi disperata. Il livello di violenza delle ultime settimane è stato altissimo e Maliki deve ancora dimostrare che passi avanti in materia di sicurezza sono stati effettivamente compiuti.
Sempre lunedì, diversi colpi di mortaio sono stati lanciati contro la Green Zone di Baghdad sotto il controllo americano. Uno dei colpi avrebbe raggiunto il Parlamento fortunatamente senza causare né vittime nè feriti. La Green Zone ultimamente è stata teatro di troppi incidenti e questo mette in discussione l’efficacia del nuovo piano di sicurezza per la capitale. Secondo la polizia, poi, almeno una sessantina d’iracheni sarebbero rimasti uccisi nel corso degli ultimi giorni. Sette persone avrebbero perso la vita in un’imboscata, mentre si trovavano all’interno di un autobus nella zona settentrionale della città; altre 24 sono state ritrovate con il corpo crivellato da proiettili, cosa che in genere fa pensare a un regolamento di conti tipico della violenza settaria che imperversa nel paese.
Nel centro della città di Basra, alcuni soldati britannici si sono scontrati con un gruppo di guerriglieri sciiti. Stando a quanto riferito da fonti dell’esercito inglese, avrebbero perso la vita un soldato britannico e il conducente di un autobus.
Che gli Stati Uniti abbiano ormai perso la pazienza nei confronti del governo iracheno – nonostante le dichiarazioni di Fratto – è più che un’impressione. A Londra, un ufficiale dell’esercito britannico avrebbe accettato di rivelare alcuni particolari della politica statunitense in Iraq a condizione di rimanere nell’anonimato. L’ufficiale sostiene che la diplomazia e l’esercito degli Stati Uniti hanno in mente di presentare uno studio sui progressi raggiunti in Iraq nel mese di settembre. Ulteriore conferma delle pressione americane sui legislatori iracheni arriva dal politico curdo Mahmoud Othman, che ai cronisti dell’Ap ha posto l’accento soprattutto sulla preoccupazione dell’amministrazione Bush per l’approvazione della legge sui dividendi del petrolio. “Gli americani fanno pressing sui curdi per convincerli ad accettare la legge sul petrolio. E stanno pressando molto forte. Vogliono dimostrare al Congresso che hanno fatto qualcosa e quindi desiderano che la legge venga approvata questo mese. Si tratta di un’ingerenza negativa e che avrà senz’altro conseguenze.”
I curdi si oppongono a tale progetto di legge perché credono di non avere abbastanza voce in capitolo, dal momento che siedono sul territorio più ricco di petrolio del paese. D’altro canto, i leader dei Partiti sunniti e sciiti si oppongono a cambiamenti drastici della costituzione (approvata il 15 ottobre del 2005), così come i sunniti si lamentano per il fatto che gli ex-sostenitori del regime di Saddam Hussein non possono ricoprire ruoli istituzionali a causa della de-baathificazione sostenuta invece dagli sciiti. Sono tutte posizioni difficilmente conciliabili, se non per mezzo di compromessi in ogni campo da cui scaturisca una distribuzione della ricchezza, e dei privilegi, che non lasci l’amaro in bocca a nessuno.
Ad oggi, tuttavia, non ci sono segni evidenti di miglioramento. Anzi, un articolo apparso sul New York Times di John Broder e James Risen, ci rammenta i numeri di una guerra occulta che spesso non vengono citati e che colpisce la forza lavoro. Nel corso del conflitto sono morti almeno 917 lavoratori, sia iracheni che stranieri, tra imprenditori edili e privati, senza contare l’impressionante numero di feriti che si aggira attorno ai 12.000. Come farà l’esercito iracheno a gestire tale caos nel caso in cui gli americani dovessero sgombrare il campo prima del previsto?