L’Italia complice e vigliacca che abbandonò Torregiani al suo destino
29 Maggio 2010
Pubblichiamo un estratto del libro "Gli amici del terrorista" di Giuseppe Cruciani (Sperling & Kupfer
2010), che punta coraggiosamente il dito contro l’intellighenzia schierata a favore del terrorista Cesare Battisti – condannato per quattro omicidi e che oggi si ritrova di colpo nei panni della vittima.
Pierluigi Torregiani firma la sua condanna a morte la notte tra il 22 e il 23 gennaio 1979. Milano vive da mesi una stagione d’inferno. Furti, scippi, attentati terroristici: solo negli ultimi cento giorni erano morte dieci persone per rapina. Il 29 gennaio sarebbe stato assassinato il giudice Emilio Alessandrini. «Tutti i paragoni sono stati usati: Milano come il Far West, Milano come la Chicago degli anni Trenta, la Milano violenta di Bezzi e Barbieri», scrive Leonardo Vergani sul Corriere della Sera. «I gangster sono scatenati», titolava in quei giorni un altro quotidiano.
È questa la città che Torregiani attraversa poco dopo le 23 del 22 gennaio, dopo aver partecipato a una trasmissione in una televisione privata, Antenna 3, che aveva i suoi studi a Castellanza, nel Varesotto, per andare a mangiare assieme alla figlia maggiore Marisa e ad alcuni amici, al ristorante Transatlantico, in via Malpighi 3, dalle parti di Porta Venezia. Porta con sé, oltre a una valigetta di gioielli, una calibro 38 regolarmente denunciata; non è un fissato per le armi, anzi, ma già una volta era stato aggredito, Milano era diventata quello che era diventata, una città violenta, e lui così si sente più sicuro. Il locale è affollato, ci sono una ventina di persone.
È uno dei pochi che rimane aperto fino a tardi. Sembra una serata tranquilla: a un tavolo siede un gruppo di orchestrali tedeschi, in un altro uno dei conti Dal Verme, poi un commerciante catanese a Milano per affari, Vittorio Consoli, in compagnia della fidanzata, e infine c’è un gruppo di sette persone, tra cui Torregiani, la figlia e un cliente del gioielliere, Valerio Lo Cascio, anch’egli armato. Passa la mezzanotte e tutto avviene in pochi minuti. Prima entra un giovane che, con la scusa di cercare un amico, si aggira per i tavoli ed esce, poi piombano dentro due uomini con le pistole spianate e il volto semicoperto dal bavero del cappotto. Uno grida: «È una rapina, non muovetevi, tirate fuori tutto quello che avete!» L’unico che reagisce è Torregiani. Appena uno dei malviventi, Orazio Daidone (un pregiudicato trentaquattrenne di Enna), si avvicina, l’orefice gli blocca il polso e tira fuori la pistola.
Ma a quel punto si scatena il caos. Il complice inizia a sparare all’impazzata contro Torregiani, che intanto è finito per terra assieme al primo rapinatore. Anche Lo Cascio prende l’arma e spara contro i delinquenti. Scriverà il capo della Squadra Mobile, Antonio Pagnozzi, nel rapporto del 24 gennaio 1979: «Il Lo Cascio, notato che Torregiani era per terra immobile e che il Daidone si trovava nei pressi ancora armato e disteso, esplodeva all’indirizzo di quest’ultimo tre colpi con l’arma in suo possesso attingendolo alla schiena e alla testa… Un altro degli avventori, Consoli, durante la sparatoria si alzava dal suo tavolo tentando di guadagnare l’uscita, invitando anche la sua fidanzata a seguirlo… Nei pressi dell’uscita veniva però affrontato da un terzo malvivente il quale gli esplodeva contro un colpo di pistola causando il suo decesso».
Alla fine muoiono in due (Daidone e Consoli) e rimangono feriti in tre, tra cui Torregiani, colpito di striscio a una spalla. Gli altri banditi scappano su una Fiat 128 bianca rubata l’11 gennaio a un giornalista del Corriere. Come si venne a sapere qualche anno dopo da alcune dichiarazioni di Angelo Epaminonda, il primo pentito di mafia a Milano, dietro la sparatoria del Transatlantico non c’era un gruppo di proletari in rivolta contro lo Stato, ma una banda di mafiosi venuta appositamente da Catania in aereo proprio per rapinare Torregiani: sapevano che di solito portava con sé un campionario di gioielli. Altro che esproprio. Altro che «giusta pretesa del proletariato di riprendersi quanto gli veniva tolto», come proclamarono i PAC
Eppure, nei giorni seguenti, qualche giornale (quelli della sinistra ma non solo) dipinge Torregiani come una specie di vendicatore della notte assetato di sangue. Uno, insomma, che aveva esagerato. Che non avrebbe dovuto reagire. In realtà l’uomo è terrorizzato. Sconvolto dai morti di quella maledetta serata. Quando erano arrivati i soccorsi aveva detto subito: «Non è niente, la ferita vera me la porto nel cuore per quello che è successo». Ma La Notte titola: «Sceriffo in borghese». E la Repubblica non va troppo per il sottile: «Giustiziere a Milano». Caratteri cubitali. Al quotidiano di Eugenio Scalfari, che in un articolo lo ha descritto come un cacciatore di teste alla ricerca di rapinatori da ammazzare, invia persino una lunga lettera di rettifica, che si conclude in questo modo: «Premesso poi che chi fa un mestiere come il mio rischia già abbastanza quotidianamente nel proprio negozio, dove tra l’altro fui vittima anni addietro di una cruenta aggressione, perché mai sarei andato alla ricerca di supplementari
brividi notturni in compagnia di uno dei miei affetti più cari, la giovane figlia Marisa?».
Ma ormai il danno è fatto. Nelle menti malate di qualcuno è passata l’immagine di quel gioielliere sconsiderato che, alla ricerca di emozioni forti, spara ai poveri ladri del Transatlantico. A casa Torregiani iniziano ad arrivare telefonate minacciose, ogni giorno le stesse voci, le stesse frasi: «Porco, ti faremo fuori», «Perché vai in giro con il cannone?» «Preparati la cassa». Lui cerca di tranquillizzare tutti, come al solito. Ma è spaventatissimo. Per non esporsi troppo rinuncia per qualche giorno alle presenze in televisione, dove andava spesso. Acquista un giubbotto antiproiettile che diventa una seconda pelle. È sempre più guardingo. Non abbandona mai la Smith & Wesson calibro 38. Gli danno una scorta che va e viene. Ma intanto quelli dei PAC leggono i giornali, i titoli, gli articoli e si
preparano a incrociare il suo destino.
Gabriele Grimaldi, dibattimento del processo d’appello ai PAC, Milano, 8 maggio 1986: «Io ho partecipato all’azione contro Torregiani. Sono entrato a far parte del nucleo che andò a sparare a Torregiani».
«Da chi è stato avvicinato?»
«Dal mio compagno.»
«Memeo?»
«È stato lui che mi ha chiesto se intendevo partecipare a
questa azione.»
«Chi ha fornito le armi per l’episodio Torregiani?»
«Io. Io e il mio compagno.»
Giuseppe Memeo, dibattimento del processo d’appello ai PAC, Milano, 9 maggio 1986: «Successivamente ai fatti del Transatlantico ci fu quasi una sorta di epidermica reazione
a quei fatti… Ci guardammo in faccia e ci chiedemmo se potesse essere possibile una cosa del genere… Quindi maturò praticamente subito, sul momento… Da un’idea vaga, piano piano comincia a diventare un’idea sempre meno vaga, per cui si comincia a vedere cosa possiamo fare… Alla fine quest’idea diventa una proposta e ci preoccupiamo di informare gli altri compagni… Il nucleo operativo siamo io e Masala, poi Grimaldi e Fatone».
Sebastiano Masala, dibattimento del processo d’appello ai PAC, Milano, 7 maggio 1986: «Questa follia è successa tutta in venti giorni, perché tutto è nato il 24 o il 25 gennaio dalla storia del Transatlantico. Dopo di che questa storia ha cominciato a maturare dopo quattro o cinque giorni, quando i giornali…
Dicevo al gruppo ‘ma hai letto questa cosa?’, non per rafforzare le mie convinzioni, ma così, indignato, non so che termine usare».
L’uccisione di Torregiani e il ferimento del figlio Alberto hanno lasciato sconcertati una parte dei PAC e altri gruppi armati milanesi dell’autonomia. Così, all’inizio del marzo ’79, Giuseppe Memeo scrive (assieme al giornalista Giovanni Cerruti, come vedremo più avanti) un volantino di rivendicazione
estremamente dettagliato. L’unico scopo è far sapere all’esterno, all’area dell’estremismo politico, che il piccolo Alberto è stato colpito dal padre Pierluigi e non da loro. Non c’è nessun sentimento di pietà e rimorso per un ragazzo rimasto paralizzato, ma solo un tentativo di rispondere ad accuse che mettono in dubbio la capacità militare e l’onore dei PAC.
«Rappresentiamo la formazione di compagni che ha giustiziato Torregiani… L’azione contro di lui è stata decisa non in un bar del Ticinese ma subito dopo l’assassinio di un giovane proletario al Transatlantico… La sera del 15 febbraio abbiamo rubato una Opel Ascona nocciola in una strada vicino a piazza Corvetto. Il 17 alle 12 ci siamo trovati in una nostra base vicina per prendere gli ultimi accordi sui nostri ruoli. Alle 14.40 siamo andati sul posto armati di pistole a tamburo 357 Magnum da 4 pollici e un mitra… Due di noi si mettono davanti alla fermata dell’82 di fronte al negozio del Torregiani. Il
terzo aspetta in macchina. Per non dare nell’occhio entriamo nel bar e beviamo un cognac. Alle 15 torniamo alla fermata e dopo un quarto d’ora arriva la Ford Fiesta celeste guidata dalla figlia. Quando escono dal garage abbiamo visto che con il porco c’è un ragazzo che non avevamo mai visto durante gli
appostamenti. Attraversiamo la strada e uno di noi si ferma per farsi affiancare da Torregiani, mentre l’altro va avanti per tre o quattro metri e arma il cane della 357. Il porco si accorge e quando il compagno butta a terra la figlia, io riesco ad anticipare Torregiani e sparo per primo tre colpi. Lui cade sparando all’impazzata. Continuo a sparare contro Torregiani che aveva il corsetto antiproiettile che si è rivelato perfettamente inutile. Il ragazzo ha cercato di mettersi al riparo ed è incorso nella linea di fuoco del padre. Non lo abbiamo colpito noi e se non manipolano la perizia sarà dimostrato. Vista la
reazione del Torregiani l’altro compagno interviene con un colpo in testa e uno al cuore.»
Nella sentenza definitiva sulla vicenda Torregiani, emessa nel 1983, i giudici scrivono: «Questo testo dimostra che gli assassini di null’altro si preoccupavano, di fronte alla tragedia che aveva doppiamente colpito un ragazzo innocente, che della loro stessa immagine, venuta a offuscarsi nell’area della stessa estrema sinistra, rimasta estremamente turbata per la brutalità di una pretesa esecuzione proletaria. E tanto più il ragazzo era da compiangere perché, lui stesso orfano, era stato adottato con altri due orfani da colui che gli assassini continuavano a definire ‘porco’ e nemico dei proletari».
Tratto da Giuseppe Cruciani, Gli amici del terrorista, Sperling & Kupfer 2010. Tutti i diritti riservati