L’Italia dei venerati maestri e l’illusione dello status quo
09 Febbraio 2017
di Daniela Coli
Mentre il mondo sta cambiando velocemente, da noi, invece di affrontare i problemi drammatici del Paese, si litiga sulla legge elettorale. Paradossalmente, ci si litiga tra partiti filoUE e partiti antiEU, mentre l’Unione si sta dissolvendo. In Germania si parla apertamente di Europa a più velocità, finalmente si è capito – se n’è accorto perfino Scalfari – che, sì, l’Italia è tra gli Stati fondatori, ma non è tra quelli di serie A. La Germania pensa a un’unione con l’Europa del Nord, e perfino il governo polacco prende posizione contro gli Stati UE che ostacolano Brexit, dichiarandosi pronto a un patto con Londra.
L’illusione dello status quo dell’establishment italiano è stata scossa prima da Brexit e poi da Trump, rappresentati dai media mainstream come due mostri venuti a turbare il Belpaese. È ancora troppo presto per sapere come si muoverà Trump in politica estera, anche se sappiamo che Gentiloni è stato uno degli ultimi a ricevere una telefonata dal presidente Usa e subito gli è stato ricordato che l’Italia deve contribuire col 2% del Pil alla Nato. Al governo Gentiloni non piacerà certamente sapere che Trump ha definito Al Sisi “a fantastic guy”.
Qualche americanista italiano si è dichiarato inorridito che gli americani abbiano eletto “un presidente disgustoso: razzista, sessista, ballista, super evasore fiscale, aggressivo nella convinzione che la ricchezza può violare e comprare tutto e tutti, persone, cose, diritti, valori”, mentre altri hanno definito la vittoria di Trump il trionfo del “suprematismo bianco”. Non sarebbe male se i nostri “americanisti” dessero un’occhiata al lungo saggio pubblicato sull’ultimo numero della London Review of Books da David Bromwich di Yale. Intanto, capirebbero che i democratici non erano così malridotti dal 1920 e nessuna protesta, con o senza le star tipo Madonna, potrà ritirarli su facilmente. Il partito democratico, in fondo, ha iniziato a declinare nel 1980 con la vittoria di Ronald Reagan.
Il nazionalismo di Trump non è una catastrofe improvvisa, ma è il risultato di 15 anni durante i quali si è parlato di nation-building, globalizzazione “à la Nato”, esportazione della democrazia, multiculturalismo globale: piatti piccanti. Gli chef sono stati Bill e Hillary Clinton, George W. Bush, Barack Obama e il modello è stato Tony Blair. Grande studioso di Burke, Bromwich osserva che gli chef neoliberali hanno distrutto stati come l’Iraq e la Libia, volevano convertire il mondo a un internazionalismo illuminato e la reazione è il nazionalismo.
Trump ha criticato le guerre mediorientali di Bush e Obama. Gli uomini e le donne dimenticati di Trump sono la maggioranza silenziosa di Nixon. “America first” è lo slogan di Trump, ma quante persone sanno – si chiede Bromwich – che “America first” era anche uno slogan di John F. Kennedy? Trump ha anche detto che l’America non cercherà di imporre a nessuno il proprio modo di vivere. Quanto al dittatore Trump, Bromwich sottolinea che nessun presidente come Obama ha esteso il segreto di Stato per forniture di armi e apparati e forze speciali per rovesciare stati sovrani com’è avvenuto per la Libia, senza consultare il Congresso. Obama ha poi esteso l’uso delle intercettazioni su dati internet e telefonate private ai cittadini americani e stranieri, ha messo su un apparato di spionaggio mostruoso.
L’America è razzista? Si chiede Bromwich, ma è la stessa America che ha votato due volte per Obama. Da noi i media e gli accademici mainstream sono in preda all’isteria su Trump come su Putin, perché purtroppo l’Italia è un Paese in grave crisi economica e senza più una politica estera. Basta pensare, come informa il Times di Londra, che il governo italiano avrebbe chiesto aiuto alla Russia per la Libia. Certamente Trump, che considera l’egiziano Al Sisi “a fantastic guy”, sarà orientato, come francesi e arabi, a sostenere Haftar e non Serraj, il governo travicello che Roma si ostina a sostenere, ritenendo di avere ancora un qualche ruolo di mediatore tra Russia e America. Ma la guerra fredda è finita, non esiste più l’Occidente euroamericano, ed è rinato il caro vecchio interesse nazionale. Quando lo capiranno i nostri venerati maestri?